Fondazioni d’artista: il peso del giudizio d’autenticità
La sentenza della Corte d’Appello ha riformato una sentenza del Tribunale di Milano in una causa promossa dalla vedova di un collezionista che, affermando di essere proprietaria di una tela di Lucio Fontana acquistata dal marito direttamente dall’artista, si era rivolta alla Fondazione Lucio Fontana per ottenere l’inserimento dell’opera nell’archivio delle opere del Maestro, previa verifica della sua autenticità.
La Fondazione si espresse negativamente sull’autenticità e la collezionista la citò in giudizio chiedendo al Tribunale di accertare l’autenticità dell’opera e di condannare la Fondazione alla restituzione dell’opera ed al rilascio di una expertise sull’autenticità. Nelle more del giudizio, la Fondazione restituì l’opera alla proprietaria, la quale abbandonò la domanda di condanna al rilascio dell’expertise.
Al termine dell’istruttoria, la domanda della vedova era quindi unicamente quella di accertamento dell’autenticità dell’opera. Mentre il Tribunale, in base alle prove assunte nel corso del giudizio, ha dichiarato l’opera autentica, la Corte d’Appello ha riformato la sentenza negando che nel nostro ordinamento possa essere richiesto ad un Tribunale di accertare l’autenticità di un dipinto. Per i giudici milanesi d’appello, una cosa è chiedere un giudizio relativo all’adempimento di un contratto di compravendita di un’opera tra un venditore ed un acquirente di accertare incidentalmente la falsità dell’opera al fine di ottenere la risoluzione del contratto e la condanna del venditore al risarcimento del danno.
Un’altra cosa è chiedere al giudice di pronunciare una sentenza di mero accertamento dell’autenticità dell’opera. In questo secondo caso, il giudice deve fare un passo indietro e dichiarare inammissibile la domanda di accertamento, perché la sentenza non potrebbe procurare al collezionista una “utilità aggiuntiva” rispetto alla situazione di incertezza esistente prima della causa. Inoltre, l’efficacia dell’accertamento giudiziale di autenticità sarebbe comunque limitata alle parti in causa e non avrebbe alcuna influenza al di fuori del processo.
Personalmente avrei anche dubbi che il proprietario di un’opera la cui autenticità sia stata accertata da un giudice riesca a convincere una casa d’aste internazionale che l’opera possa essere tranquillamente venduta in quanto autentica, contro l’opinione espressa dalla Fondazione di riferimento dell’artista e dalla comunità degli studiosi. L’unica eccezione al principio affermato dalla Corte d’appello è l’azione di accertamento in capo all’autore in relazione al diritto morale di cui lo stesso è titolare (articolo 20 LDA) ovvero, dopo la sua morte, i suoi più stretti familiari (articolo 23 LDA).
Nessun diritto morale spetta ad un collezionista, ovvero alla Fondazione costituita dall’artista (o dai suoi eredi). La collezionista ha affermato nella causa che il rifiuto della Fondazione d’artista di archiviare l’opera come autentica ha comportato una lesione del suo diritto di proprietà. L’argomento è stato così smontato dal giudice d’appello: nessuno può contestare il diritto di proprietà sull’opera in capo al collezionista, ma questo “non si estende ex se alla sula (pretesa) autenticità”!
È vero, tuttavia, che il valore economico dell’opera di un artista che la Fondazione di riferimento abbia “bocciato” si azzera e l’unica possibile reazione del proprietario è – in alcune limitate circostanze – prendersela con chi gliela ha venduta. Usando un linguaggio mutuato dal diritto antitrust, la Corte afferma di essere consapevole del fatto che le Fondazioni d’artista possano esercitare una “influenza rilevante nel mercato riferimento, suscettibile di frustrare le aspettative economiche dei proprietari delle opere che non ottengono il suo avvallo di autenticità”.
L’unico limite posto dal giudice è che il parere venga espresso sulla scorta di una congrua valutazione e non sia un atto meramente emulativo volto a danneggiare consapevolmente il richiedente. In altre parole: al di fuori del dolo, nessuna tutela può essere utilmente invocata in giudizio dal proprietario.
Sono d’accordo sul fatto che i giudici e gli avvocati non abbiano una formazione specializzata per decidere sull’autenticità e che facciano bene a rifiutare di essere coinvolti in questo tipo di controversie storico-artistiche. Ma come mai nasce il problema? A volte, un collezionista può non accettare la risposta negativa della fondazione d’artista quando non riceve una spiegazione adeguata delle ragioni per cui l’opera non è considerata autentica.
Poiché non ci sono standard codificati o requisiti legali per le fondazioni d’artista, le loro decisioni possono apparire soggettive e prese secondo criteri poco comprensibili. Se la solidità degli argomenti e l’affidabilità di chi li esprime sono i due parametri fondamentali utilizzati in ogni ambito di indagine scientifica, credo che le fondazioni meno esposte al rischio di cause legali siano quelle che sono trasparenti sui loro metodi, processi e decisioni. Le second opinions di specialisti esterni alle fondazioni d’artista non sono tipicamente richieste, anche se oggi si incoraggia una pluralità di pareri. Se una fondazione ritiene che la propria opinione sia ben ragionata, non deve preoccuparsi se i collezionisti cerchino una seconda opinione.
La forza dell’opinione dovrebbe risiedere nella chiarezza dei ragionamenti, piuttosto che in qualsiasi potere intrinseco di una fondazione o di un esperto. Se, tuttavia, una fondazione fornisce a un collezionista un ragionamento affidabile e valido basato su prove circa la mancanza di autenticità di un’opera, allora è importante che il collezionista accetti questo ragionamento.
A volte i collezionisti sono così investiti nel sostenere l’autenticità della loro opera che anche le obiezioni meglio ragionate non vengono accettate. In quei casi è difficile gestire le aspettative e le delusioni del collezionista. Insistere tramite cause costose e credere che un giudice rovesci la decisione di una fondazione può a volte solo ritardare l’inevitabile conclusione che l’opera non è veramente autentica. Non dobbiamo, infine, dimenticare la zona grigia, ossia le opere che potrebbero anche essere ritenute autentiche ma sono sprovviste di informazioni sufficienti per prendere una decisione. In questi casi, sarebbe prudente se il collezionista aspettasse che emergano ulteriori informazioni.
Le fondazioni potrebbero anche contemplare una terza via: la possibilità di ‘decidere di non decidere’, comunicando al collezionista che non sono attualmente disponibili informazioni sufficienti per prendere una decisione di segno positivo o negativo circa l’autenticità di un’opera. Nonostante il desiderio del tutto umano di avere una risposta chiara, e la speranza che la legge ci possa fornire un supporto, a volte nell’arte—come nella vita–la questione va al di là di un definitivo ‘sì o no’.