Negli ultimi anni, e negli ultimi mesi in particolare, abbiamo assistito ad una costante crescita e presa di consapevolezza sul tema della riproduzione dell’immagine dei beni culturali italiani. Sebbene l’attuale normativa che regolamenta la valorizzazione e la riproduzione del patrimonio culturale italiano risalga ormai a quasi vent’anni fa (D. Lgs. n. 42 del 22 gennaio 2004, meglio noto come Codice dei beni culturali e del paesaggio, che nell’ultimo decennio è stato oggetto di diverse e significative modifiche e aggiornamenti), per molto tempo il dibattito su quali immagini fosse lecito riprodurre e secondo quali modalità è rimasto in un limbo.
Per i non addetti ai lavori si ricorda che in Italia, in base agli articoli 107 e 108 del Codice dei Beni Culturali, tutti coloro che intendono utilizzare e/o riprodurre l’immagine di un bene culturale per finalità direttamente o indirettamente commerciali devono preventivamente chiedere un’apposita autorizzazione all’autorità che ha in consegna il bene culturale e pagare il corrispettivo determinato da quest’ultima.
Costo della riproduzione dei beni culturali: i casi più noti
Solo nel 2017, con la pubblicazione di due noti provvedimenti del Tribunale di Firenze e del Tribunale di Palermo, riguardanti rispettivamente la riproduzione da parte di soggetti giuridici privati per finalità promozionali/commerciali del David di Michelangelo e del Teatro Massimo – pronunce che si ritengono “apripista” del filone giurisprudenziale che riconosce come illecito e lesivo dell’immagine e della reputazione del bene l’utilizzo e la riproduzione per scopi promozionali o commerciali dell’immagine dei beni culturali in mancanza di autorizzazione amministrativa e di corresponsione del relativo canone di concessione – la discussione sul tema ha preso davvero vita. E lo ha fatto in un primo momento accendendo gli animi di giurisprudenza e dottrina, sino a sfociare più di recente in un vero e proprio dibattito pubblico e politico, complici procedimenti transfrontalieri particolarmente interessanti (si veda la decisione del Tribunale di Venezia che ha inibito alla nota Ravensburger la commercializzazione del puzzle riproducente l’Uomo Vitruviano e da ultimo la decisione del Tribunale di Firenze che ha condannato Condé Nast per l’uso non autorizzato del David di Michelangelo effettuato su un’edizione di GQ Italia), casi dalla forte risonanza mediatica (si veda il caso relativo alla vendita di serigrafie digitali uniche autenticate da blockchain del Tondo Doni), l’avvento di nuove forme di valorizzazione del patrimonio culturale attraverso la tecnologia e la crypto arte (si veda il caso relativo all’Arco della Pace di Milano dove, a seguito di un evento pubblico che ha visto la proiezione di un’opera d’arte generativa sul bene culturale, una startup italiana ha creato e commercializzato NFTs realizzati sulla base di tale evento), il fiorire di politiche comunitarie volte alla creazione di un patrimonio culturale europeo largamente fruibile (si veda l’emanazione della Direttiva 790/2019 sul diritto d’autore nel mercato unico digitale), nonché da ultimo la diffusione di campagne promozionali statali molto controverse (si veda il caso della campagna del Ministero del Turismo “Italia – Open to Meraviglia”, dove la Venere di Botticelli viene rielaborata graficamente e resa protagonista di un’operazione promozionale a livello internazionale).
Due correnti di pensiero
Il dibattito vede tradizionalmente una divisione in due grandi correnti. Da una parte coloro che ritengono corretto un approccio “garantista” da parte dello Stato, schierandosi a favore della disciplina del Codice dei Beni Culturali che lasciando all’amministrazione un totale controllo sui beni culturali che ha in consegna (e sulla loro immagine), eviterebbe usi “impropri” da parte di terzi e garantirebbe una valorizzazione del patrimonio culturale italiano sia in termini economici che di reputazione. Dall’altra parte coloro che ritengono necessario modificare il Codice dei Beni Culturali in quanto l’attuale approccio non sarebbe al passo con il presente contesto digitale, sarebbe contrario alle politiche di “open access” che si stanno diffondendo a livello comunitario e al concetto di “pubblico dominio” e, non da ultimo, non sarebbe efficiente in termini di rapporto tra costi e benefici.
Nel bel mezzo di tale discussione, a metà aprile 2023 il Ministero della Cultura ha emanato le “Linee guida per la determinazione degli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la concessione d’uso dei beni in consegna agli istituti e luoghi della cultura statali” (D.M. n. 161 del 11 aprile 2023), con un “Allegato” che determina gli importi minimi dei canoni e dei corrispettivi per la riproduzione di beni culturali statali (sezione A) e per la concessione in uso di spazi (sezione B).
Si tratta di un atto normativo molto snello (costituito da soli quattro articoli) che va idealmente a completare la sopra citata disciplina del Codice dei Beni Culturali. Nonostante la sua apparente semplicità, però, tale testo fissa almeno tre concetti rilevanti.
Stabilendo che i canoni e i corrispettivi di concessione indicati nelle Linee Guida costituiscono gli “importi minimi” che i richiedenti devono versare per l’utilizzo e la riproduzione delle immagini dei beni culturali, ovvero per l’uso degli spazi, il decreto in primo luogo prevede l’obbligatorietà del pagamento di un quantum in tutti i casi previsi nelle Linee Guida e in secondo luogo sancisce la possibilità per i singoli enti di adottare tariffari ad hoc che potranno prevedere canoni e corrispettivi superiori rispetto ai “minimi” indicati nelle Linee Guida.
Se da una parte, quindi, viene limitata la discrezionalità degli istituti e luoghi della cultura dello Stato nel decidere “se” e “quando” richiedere al singolo il pagamento di un canone o corrispettivo per la riproduzione e l’uso dei beni culturali (in passato gli stessi avevano la facoltà di richiedere un importo anche solo simbolico), dall’altra viene lasciato loro pieno potere di aumentare in modo discrezionale e talvolta senza un tetto massimo gli “importi minimi” previsti dalla normativa. Peraltro le Linee Guida richiedono che eventuali convenzioni o accordi già stipulati con soggetti terzi – qualora prevedano canoni o corrispettivi inferiori a quelli indicati nei “nuovi” tariffari – debbano essere oggetto di adeguamento, punto questo che desta non poche perplessità, conferendo alla norma una sorta di efficacia retroattiva.
In terzo luogo, le Linee Guida – richiamando (impropriamente a detta di chi scrive) il Codice dei Beni Culturali ed esplicitando un modus operandi che nei fatti veniva già adottato dalle amministrazioni – sancisce che in ogni caso, indipendentemente dal canone o dal corrispettivo individuato, il rilascio dell’autorizzazione per la riproduzione e l’uso dei beni culturali è subordinata alla previa verifica di compatibilità della destinazione d’uso della riproduzione con il carattere storico-artistico del bene. Così fissando il principio secondo cui i singoli enti potranno discrezionalmente decidere di negare l’autorizzazione per tutte quelle riproduzioni o quegli usi che gli stessi riterranno non “consoni” o non “opportuni”.
Volendo qui concentrarci sulla riproduzione dell’immagine dei beni culturali, le Linee Guida distinguono tra “riproduzioni aventi scopo non lucrativo o per finalità non commerciali” (richieste o eseguite da privati per uso personale o per motivi di studio, ovvero da soggetti pubblici o privati per finalità di valorizzazione, di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale) e “riproduzioni a scopo lucrativo o per finalità commerciali” (richieste o eseguite da destinare alla vendita sul mercato o per la promozione della propria immagine, del nome, del marchio, del prodotto o attività).
Nell’ambito delle riproduzioni senza scopo di lucro le Linee Guida operano un’ulteriore distinzione tra le (poche) riproduzioni che sono in ogni caso libere e gratuite e le riproduzioni che sono sì libere, ma non gratuite in quanto soggette ad un rimborso delle spese “sostenute” dall’amministrazione concedente (concetto non chiaro soprattutto perché in tale categoria il testo della norma fa rientrare anche le riproduzioni eseguite direttamente dai privati per motivi di studio). Anche per determinate riproduzioni effettuate in assenza di lucro viene, quindi, prevista la corresponsione di un quantum (seppur a titolo di rimborso e non di canone).
Per quanto riguarda le riproduzioni a scopo di lucro, invece, le Linee Guida elaborano un meccanismo di calcolo per individuare il “corrispettivo minimo” che parte da una tariffa unitaria (da individuarsi sulla base del macro-prodotto di interesse), che va moltiplicata dapprima per un coefficiente differenziato in funzione dell’uso/destinazione delle riproduzioni (es. editoriale riviste scientifiche, brochure, pubblicazioni diverse da quelle scientifiche, merchandising, etc.) e successivamente per un ulteriore coefficiente relativo alla quantità o alla tiratura (ovvero “download stimati” in caso di e-book) delle riproduzioni da effettuarsi.
Il meccanismo di calcolo diventa ancora più complesso qualora le riproduzioni siano finalizzate alla realizzazione di copie o serigrafie digitali in altissima definizione, oppure di NFTs. In tale eventualità, infatti, per individuare il “corrispettivo minimo” sarà necessario sommare la “tariffa per livello di pregio” stabilita dall’istituto che ha in consegna il bene (ad esempio sulla base della sua importanza storica e artistica) al coefficiente per percentuale sul prezzo di vendita della serigrafia o dell’NFT. Per quanto riguarda gli NFTs (fermo che non è chiaro cosa debba intendersi per “NFT di beni culturali”: riproduzioni digitali fedeli del bene culturale certificate con tecnologia blockchain, o in generale ogni opera digitale certificata con tecnologia blockchain che utilizza l’immagine di un bene culturale?), il coefficiente varia addirittura da un minimo del 90% ad un massimo del 99% e si applica sia al mercato primario che al mercato secondario (“prima vendita e successive”).
Se da una parte le Linee Guida hanno il pregio di voler definire e rendere anticipatamente noto alla collettività il costo da sostenere per poter riprodurre e/o utilizzare i beni culturali e la loro immagine, nonché il merito di affrontare finalmente il tema delle riproduzioni ad altissima definizione di beni culturali pubblici da destinare al mercato (es. digital copies), dall’altra tale testo pare non solo aumentare il già significativo divario esistente tra la disciplina nazionale e quella comunitaria, ma addirittura fare un passo indietro rispetto al previgente assetto normativo interno e rispetto alle “Linee guida per l’acquisizione, la circolazione e il riuso delle riproduzioni dei beni culturali in ambiente digitale” emanate dallo stesso Ministero della Cultura meno di un anno fa (era il giugno 2022). Quest’ultimo testo, infatti, seppur ritenuto per molti aspetti non del tutto soddisfacente, quantomeno aveva avuto il merito di rendere gratuita la pubblicazione di immagini di beni culturali statali in prodotto editoriale, nonché di aprire un primo spiraglio di luce verso la cultura dell’open access e del riuso dei materiali.
In poco più di un mese dalla sua emanazione, il Decreto Ministeriale ha suscitato forti dissensi e sempre maggiori sono gli appelli al Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per chiedere una sua immediata revisione. In particolare, è da sottolineare la lettera aperta inviata al Ministro da parte dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA) dove viene sottolineato come nel decreto “si stabiliscono principi e regole che danneggiano la ricerca scientifica, contraddicono decenni di politiche di scienza aperta e di apertura del patrimonio culturale (politiche, peraltro, trasversali a governi di diverso segno politico) e pongono l’Italia fuori dagli indirizzi internazionali e dell’Unione Europea” e che “Se le linee guida fossero interpretate alla lettera, occorrerebbe immaginare casi come quello in cui un museo statale chiede l’applicazione del tariffario a un’università pubblica per la riproduzione di immagini di beni culturali in pubblico dominio. Tale applicazione determinerebbe un inutile giro di denaro pubblico (dall’università al museo) senza alcun beneficio per le casse dello Stato e, anzi, con un aggravio dei costi per la pubblica amministrazione derivante dall’appesantimento burocratico del processo che conduce alla pubblicazione scientifica”.
Ulteriori appelli, osservazioni e richieste di confronto sul Decreto Ministeriale sono arrivati anche dall’Associazione Italiana Biblioteche (AIB) e dalla Federazione Consulte Universitarie di Archeologia (FCdA) e in generale da coloro che ritengono che l’obbligo di sottoporre ad un preventivo vaglio statale ogni riproduzione del patrimonio culturale pubblico costituisca una violazione delle libertà costituzionali di espressione.
Una prima risposta ai numerosi dissensi ricevuti è arrivata qualche giorno fa dall’Ufficio legislativo del Ministero della Cultura che, respingendo le critiche arrivate soprattutto dal mondo accademico, ha dichiarato che è “falsa e non trova alcun riscontro nei vari passaggi del decreto […] l’affermazione secondo cui gli studiosi dovrebbero pagare per pubblicare le immagini” e precisato che “nei prossimi giorni chiariremo con un successivo atto che nulla è dovuto per le riproduzioni necessarie alle riviste scientifiche […] e per le tesi accademiche”.
In attesa, quindi, che il Ministero chiarisca i tanti passaggi oscuri (sia sostanziali che formali) della normativa, rimane sempre alta l’attenzione su un tema – quello della riproduzione dell’immagine di beni che dovrebbero essere di pubblico dominio e, quindi, parte del bagaglio culturale dell’intera collettività – che è ormai passato dall’avere una rilevanza puramente giuridica ed economica, ad averne una sociale e culturale.