Sono questi, in estrema sintesi, i princìpi cui è recentemente addivenuta la Corte di Cassazione mediante Ordinanza 29 maggio 2020, n.10256.
La norma, come noto ha esteso la suddetta imposta ai vincoli di destinazione, costituiti a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 2, comma 47 del citato decreto. L’Agenzia delle Entrate dal canto suo – negli atti di recupero – ha formulato una tesi, con riferimento a questa estensione impositiva, in virtù della quale l’atto della dotazione dei trust, sia soggetto alle imposte proporzionali sui trasferimenti, ritenendo dunque che tale atto, costituisca un fatto generatore di capacità contributiva e, come tale, suscettibile di imposizione indiretta in misura proprozionale.
A dire il vero le “attenzioni” dell’Amministrazione finanziaria si sono da sempre maggiormente concentrate sulle ipotesi di trust, c.d. “autodichiarato”.
Sul punto, sia concessa una sintetica descrizione delle fattispecie.
Nello specifico, un trust può essere principalmente di tipo:
- “traslativo”, laddove il disponente trasferisca la titolarità dei beni in esso conferiti ad un soggetto terzo (trustee), affinché quest’ultimo possa eseguire le disposizioni del disponente (settlor). Questa è considerata la figura più tradizionale e forse meno attenzionata da parte dell’Amministrazione finanziaria;
- “autodichiarato”, qualora il settlor rivesta anche i panni del trustee.
Entrambe le fattispecie sono ammesse nel nostro Ordinamento e possono avere un utilizzo quanto mai proficuo nella gestione patrimoniale, nonché nella tutela dei soggetti più deboli (si pensi, ad esempio, ad un trust istituito nell’ambito della Legge n. 112/2016, c.d. “Dopo di noi”,).
Tuttavia, sempre con riferimento al trust autodichiarato, una naturale, ancorché spiacevole, forma di diffidenza è nata a causa dell’utilizzo potenzialmente distorto che dell’istituto potrebbe farsi. Ciò evidentemente, a scapito degli interessi dei creditori del disponente, primo fra tutti il creditore Fisco.
Capofila di questa “caccia” all’uso distorto del trust autodichiarato è stato rappresentato, per un certo periodo della recente storia giurisprudenziale, da un orientamento della Cassazione – attivo soprattutto tra il 2015 e il 2016 – che vedeva nel vincolo di destinazione un presupposto impositivo, al di là della realizzazione di un effetto traslativo della ricchezza da un soggetto ad un altro (Cass. n. 3735, 3737, 3886 e 5322 del 2016 e n. 4482 del 2016).
Tale impostazione è stata da subito fortemente censurata dalla prevalente dottrina, a causa degli evidenti motivi di contrasto con i principi costituzionali (cfr. artt. 53 e 23 Cost.), posti alla base dell’imposizione tributaria.
Non molto tempo dopo le suddette pronunce, il Supremo Collegio, ha tuttavia cambiato decisamente rotta, affermando – in circa 30 pronunce dello stesso tenore – che all’atto di dotazione del trust deve essere applicata, non già l’imposta proporzionale di donazione, bensì l’imposta di registro in misura fissa (200 Euro), indipendentemente dalla struttura e dallo scopo del trust stesso.
In questo solco si inserisce l’Ordinanza n. 10256 in commento la quale riafferma ulteriormente, qualora se ne sentisse ancora il bisogno, un legittimo punto di diritto, sostenendo che l’atto di dotazione dei beni in trust non può considerarsi suscettibile di capacità contributiva e, come tale, risulta soggetto all’imposta di registro in misura fissa (pari a 200 Euro) in luogo di quella proporizonale.
Non meno importante il fatto che – anche nella odierna fattispecie – la Suprema Corte si sia pronunciata non già con Sentenza, bensì con Ordinanza, a riprova che trattasi ormai di questione del tutto appurata e non più controversa (come previsto espressamente dall’art. 375, comma 5, c.p.c.).
Alla luce dell’ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale, l’auspicio non può che essere quello di una presa d’atto da parte del Legislatore che – a distanza di oltre 30 anni dalla ratifica della Convenzione dell’Aja del 1985 (avvenuta con Legge n. 364/89) con cui è stato sancito l’ingresso nel nostro ordinamento del trust – formalmente introduca una norma di diritto positivo che, compiutamente, vada a disciplinare in maniera chiara e organica la fiscalità dell’istituto in esame. Tuttavia, i vari disegni di legge sul tema, giacciono tuttora nelle Commissioni parlamentari (emblematico, sul tema, il DDL n. S.1151 in corso di esame in commissione al Senato dal 30 luglio 2019, dal quale si evince: «I trust cosiddetti interni negli ultimi anni hanno conosciuto ampia diffusione e sono oramai una realtà con la quale gli operatori giuridici si trovano quotidianamente a confrontarsi, con notevoli incertezze dovute al fatto che la legge regolatrice va necessariamente rinvenuta in ordinamenti stranieri. I principi ed i criteri direttivi di cui all’articolo 1, comma 1, lettera p), del disegno di legge delega rispondono all’esigenza di introdurre una disciplina interna sulla costituzione e sul funzionamento del trust, che vada oltre le isolate disposizioni di legge attualmente vigenti in materia fiscale, consentendo di superare sia i residui dubbi di ammissibilità dell’istituto che quelli concernenti i suoi rapporti con l’articolo 2645-ter del codice civile»).
Nelle “more” del Legislatore, ci si augura, infine, che questa impostazione ormai consolidata in seno al Supremo Collegio, venga definitivamente sugellata da una pronuncia a Sezioni Unite che, a chiare lettere, dipani ogni dubbio di sorta circa la tassazione indiretta degli atti di dotazione del trust.
Tale intervento (seguìto magari da un documento di prassi dell’Agenzia delle Entrate che si conformi definitivamente al mutato orientamento giurisprudenziale), avrebbe il doppio vantaggio consistente sia nel rendere ancor più appetibile il (lecito) utilizzo dello strumento di protezione patrimoniale in esame, sia nell’evitare il formarsi di nuovi (nonché sancire la chiusura degli attuali) procedimenti dinanzi le Commissioni tributarie.
Scrittp da Paolo Angelillis Tax Lawyer presso Sciumé Legal & Tax