La nuova definizione del domicilio fiscale di cui al riformato art. 2, co. 2 del Tuir, quale luogo correlato alla presenza delle relazioni personali e familiari della persona, presenta un indubbio impatto sulla situazione di tutti quei soggetti trasferitisi all’estero per ragioni lavorative i quali potrebbero ora essere soggetti alla tassazione concorrente dello Stato della fonte e dello Stato italiano per la permanenza nel territorio nazionale dei loro affetti e interessi personali.
L’interpretazione giurisprudenziale del concetto di domicilio fiscale
Fino al recente intervento ad opera del D. Lgs. n. 209/2023, l’art. 2, co. 2, del Tuir si limitava a prevedere che, ai fini delle imposte sui redditi, si considerano residenti le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del Codice civile.
La formulazione, in sé oscura in quanto priva di criteri espressi per la definizione del domicilio, ha dato luogo ad ampio contenzioso che è stato occasione per la giurisprudenza di formulare una serie di indici rivelatori del collegamento con il territorio dello Stato e quindi fondanti la potestà impositiva.
Tra i criteri di determinazione del domicilio, la Corte di cassazione ha oscillato nel ritenere talvolta prevalenti gli interessi familiari e personali (sentenza n. 6501/2015), talaltra quelli economico-patrimoniali del contribuente (l’attività lavorativa, la presenza di un’abitazione, utenze, conti correnti e relative movimentazioni bancarie, l’effettuazione di atti dispositivi, sentenze nn. 32992/2018 e 29312/2018), su cui si era da ultimo maggiormente stabilizzata.
Su queste basi i cittadini italiani trasferiti all’estero per ragioni lavorative potevano (o quantomeno potevano provare a) evitare la tassazione italiana una volta dimostrato che gli interessi economico patrimoniali si trovassero nel Paese estero nonostante gli interessi personali fossero rimasti in Italia.
La nuova definizione normativa di domicilio fiscale
Su questo quadro, invero non proprio cristallino e che seguiva una logica case by case, si è innestato l’art. 1 del D. lgs. n. 209/2023, in vigore dal 1° gennaio 2024, che ha modificato l’art. 2, co. 2 in esame attribuendo rilevanza, oltre che al criterio di collegamento della residenza civilistica e della presenza fisica, anche al criterio del domicilio fiscale espressamente definito come “il luogo in cui si sviluppano, in via principale, le relazioni personali e familiari della persona”.
Per effetto della nuova formulazione della norma, quindi, ai fini della determinazione del domicilio, diviene irrilevante il luogo di ubicazione degli interessi economico-patrimoniali. Ora la prova contraria, da fornire a cura del contribuente cui venga contestata la residenza in Italia tramite il criterio di collegamento del domicilio nel territorio dello Stato, andrà fornita mediante la dimostrazione della presenza all’estero non solo dei propri interessi lavorativi ma anche personali, familiari e in generale affettivi.
Impatto pratico nei contenziosi in essere e nuovi scenari giurisprudenziali legati al domicilio fiscale
L’intervento sulla definizione di domicilio fiscale ha un certo impatto sui contenziosi pendenti. Infatti, nonostante l’entrata in vigore della norma dal periodo d’imposta in corso, tra i vari indici di collegamento col territorio dello Stato gli interpreti saranno propensi a valorizzare l’elemento affettivo e personale alla luce del nuovo dato normativo.
Inoltre, la variazione impatterà notevolmente su tutte le situazioni come quella trattata dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5563/2024 (presenza per più di 183 giorni all’estero per lavoro ma con famiglia in Italia), in cui il contribuente trasferito all’estero per motivi lavorativi potrà essere considerato residente fiscale in Italia solo per la presenza nel territorio del centro dei propri interessi affettivi e familiari. Al contrario, colui il quale presenti un forte legame di tipo economico-patrimoniale con il territorio dello Stato, potrebbe non essere considerato fiscalmente residente qualora gli affetti siano ubicati altrove.
In assenza di pronunce sulla base della nuova formulazione normativa, un punto di equilibrio potrebbe essere quello di far rientrare nella nozione delle “relazioni personali”, certamente più elastica rispetto a quella delle “relazioni familiari”, anche una serie di indici più vicini alla sfera patrimoniale della persona, correndo tuttavia il rischio di contraddire la chiara scelta del legislatore.
Possibili soluzioni pratiche per gli expats
In questo contesto, e in attesa delle prime letture giurisprudenziali, certamente gli expats dovranno rivedere la propria situazione alla luce della modifica normativa che non consente più di fare affidamento sulla mera localizzazione all’estero dell’attività lavorative, e quindi dell’intera sfera degli interessi economici, al fine di non essere attirati ai fini impositivi anche in Italia.
A ben vedere, l’unico modo sicuro per evitare la tassazione concorrente sarebbe quello di trasferire anche la famiglia nello Stato della fonte così da radicare all’estero tanto la sfera patrimoniale, quanto quella personale e affettiva. Il tema potrebbe invero rimanere per la fascia di giovani expats che non hanno un proprio nucleo familiare ma che hanno nel territorio dello Stato tutta la famiglia di origine. In questo caso, forse, sarebbe più plausibile continuare a valorizzare anche il dato patrimoniale per non incorrere in situazioni irragionevoli.
(Articolo scritto in collaborazione con Chiara Chirico, avvocato dello Studio Righini)