Mentre scrivo, il disegno di legge di riforma fiscale – inteso a delegare al governo la scrittura di più decreti legislativi che diano corpo alla riforma stessa – è stato licenziato dal Senato, toccando ora alla Camera dei deputati l’introduzione o la modifica rispettivamente di nuovi emendamenti o di quelli già decisi dall’altro ramo parlamentare.
Come normalmente accade, la gran parte dei commentatori sta già analizzando le misure e gli effetti che ne potranno scaturire, cercando di saziare la presunta fame di novità del popolo dei contribuenti.
Riforma fiscale e automobile
A mio avviso però, da quanto ho potuto capire, la riforma in cantiere assomiglia molto a certi modelli di automobile, annunciati sul mercato in pompa magna, carichi di optional e comodità inedite, ma che dopo pochi mesi si rivelano già vecchi e superati.
Anzi, scommetterei esattamente questo: sarà una riforma financo ambiziosa, ma che alla fine si rivelerà – per restare sul paragone a quattro ruote – un restyling di un’auto comunque vecchia, che sortirà un iniziale effetto di rilancio delle vetture vendute, ma lasciando inalterato il bisogno di progettare un’auto veramente nuova.
Fuori di metafora, una vera riforma fiscale, a mio modesto avviso, dovrebbe gettare le basi di quello che sarà il futuro rapporto tra contribuente ed erario, stabilendo degli obiettivi di fondo di “politica fiscale” che ispirino le varie modifiche – al momento mancano sia le basi che, soprattutto, un disegno che ispiri e consenta di razionalizzare le scelte da compiere (tanto per capirci, più di un commentatore ritiene improrogabile una redistribuzione sostanziale della ricchezza, anche con lo strumento della tassazione sul patrimonio).
Il modello italiano di tassazione
Lasciando gli obiettivi alla politica – sede in teoria deputata a questo – può essere interessante svolgere un minimo di riflessione sulle basi del futuro rapporto sopra richiamato.
Il restyling attualmente in corso viene compiuto su un modello di tassazione che trae origine dalla riforma fiscale dei primi anni ’70, dove si perseguì (per l’appunto) un grande obiettivo: passare dalla tassazione “concordata” (con i fenomeni patologici che fanno parte della storia repubblicana) a una tassazione oggettiva, ancorata alle scritture contabili, peraltro da effettuarsi mediante autoliquidazione. In altri termini, l’obbligazione tributaria veniva affidata in toto al contribuente, che sin da allora deve provvedere ad applicare la normativa, fermo restando il potere di controllo dell’amministrazione finanziaria.
Orbene, sull’onda di una digitalizzazione dell’economia in piena accelerazione, dove gli investimenti in intelligenza artificiale stanno crescendo annualmente con percentuali a doppia cifra, ha ancora senso che il contribuente (che di mestiere non paga le tasse, fa tutt’altro) debba provvedere a calcolare il tributo da assolvere?
Non è più logico attribuire all’amministrazione finanziaria tale onere – ovviamente, non più in forma “concordata” con il contribuente, ma sfruttando la tecnologia dei “big data”, e sulla base di una normativa profondamente “asciugata” – lasciando al contribuente la possibilità di contestare di fronte al giudice l’operato dell’amministrazione stessa?
Una vera rivoluzione copernicana, forse velleitaria, ma che mi sembra più allineata al futuro che ci aspetta (e probabilmente meno velleitaria di quanto non sia il proposito, ormai periodicamente reiterato, di scrivere un testo unico della normativa fiscale).
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