Negli ultimi anni si è assistito a un significativo processo di concentrazione in tre direzioni: a livello di listini, con l’aumento del peso degli Stati Uniti nei mercati azionari mondiali, a livello di settore, con l’aumento del peso del tech a Wall Street, e a livello di titoli, con l’aumento della posizione dominante delle cosiddette Magnifiche 7 negli Usa, delle “Granolas” in Europa e delle prime 30 società del Topix in Giappone. Ma cosa significa per chi investe?
Focalizzandoci sulle campionesse a stelle e strisce – Nvidia, Meta, Apple, Amazon, Microsoft, Google (Alphabet) e Tesla – c’è innanzitutto un tema da evidenziare. Nella prima parte dell’anno tre delle Magnifiche 7 hanno traballato in Borsa, al punto che il mercato si domanda se possano ancora far parte del “club”. La prima è Tesla, che da inizio anno ha perso oltre il 28%, seguita da Apple (-7%) e Alphabet (che nell’ultimo mese ha perso 8 punti percentuali, portandosi a +1,07% da inizio anno). Fatta questa premessa, sebbene un’elevata concentrazione del mercato azionario possa essere indicativa di una bolla, non significa necessariamente che ve ne sia una. Come analizzato da Goldman Sachs nel suo ultimo Global strategy paper intitolato The concentration conundrum. What to do about market dominance, mentre la quota di mercato delle società più grandi dell’S&P 500 è decisamente maggiore rispetto alla bolla delle dotcom, le valutazioni attuali sono molto più basse rispetto a quelle tipiche di altri periodi di bolla recenti, come quella del 2000 appunto, quella del Nifty 50 dei primi anni ’70 o la bolla giapponese della fine degli anni ’80.

La concentrazione del mercato azionario è davvero un rischio?
“Tuttavia, le società attualmente dominanti sono molto più redditizie e hanno bilanci più solidi di quelle che hanno dominato durante l’ultima bolla tecnologica”, spiegano gli analisti di Goldman Sachs. “Inoltre, l’elevata concentrazione azionaria non è insolita. Per il mercato statunitense la società più grande dell’indice appartiene storicamente al settore dominante”. Detto questo, per capire se l’elevata concentrazione del mercato azionario rappresenti comunque un rischio, Goldman Sachs evidenzia come storicamente – con l’emergere di nuovi operatori – poche aziende resistono alla concorrenza. In altre parole, molte finiscono per scomparire, fondersi o venire acquisite. Da questo punto di vista, un mercato dominato da pochi titoli diventa sempre più vulnerabile alle perturbazioni o alle normative antitrust. Dal 1955, per esempio, sono solo 52 le società che compaiono ogni anno nella classifica Fortune500 (la lista annuale compilata e pubblicata dalla rivista Fortune che classifica le 500 maggiori imprese societarie statunitensi misurate sulla base del loro fatturato, ndr). In altre parole, poco più del 10% delle società presenti nella lista nel 1955 si sono tenute strette un posto nei 69 anni successivi. “Sulla base di questa storia sembra ragionevole ipotizzare che quando la lista sarà pubblicata tra 70 anni, nel 2090, quasi tutte le aziende top di oggi non esisteranno più nella loro configurazione attuale e saranno sostituite da nuove aziende in nuovi settori emergenti che oggi non possiamo nemmeno immaginare”, si legge nel paper.
Le società al top generano rendimenti inferiori nel tempo
L’innovazione crea nuove tecnologie, prodotti e mercati e, di conseguenza, anche le leader del mercato azionario tendono a mutare nel tempo. Delle attuali 50 società più importanti degli Stati Uniti, solo la metà faceva parte della top50 di un decennio fa e molte di esse non esistevano neppure negli anni ’90, come Nvidia (nata nel 1993), Amazon (1994), Netflix (1997), PayPal (1998), Alphabet (1998), Salesforce (1999), Tesla (2003) e Facebook (2004). “Come risultato dei cambiamenti nella leadership e, di conseguenza, nella crescita, la storia suggerisce che l’acquisto di società dominanti genera rendimenti inferiori nel tempo”, avvertono gli analisti di Goldman Sachs. I grafici sottostanti mostrano il rendimento totale medio dal 1980 che si sarebbe ottenuto detenendo i 10 titoli principali su diversi orizzonti temporali (da 1 a 10 anni) e lo stesso rendimento relativo rispetto all’S&P500.

“Questi dati indicano che, sebbene i rendimenti assoluti rimangano buoni per le società dominanti, poi questi rendimenti svaniscono nel tempo”, spiegano gli analisti. “Ciò non significa che siano necessariamente dei cattivi investimenti. Potrebbero continuare a registrare buoni risultati, essere più difensive e godere di una volatilità più bassa e di rendimenti corretti per il rischio più elevati”. Inoltre, i grafici sottostanti svelano come l’attuale gruppo di società dominanti abbiano registrato performance migliori in termini assoluti e relativi rispetto alle società dominanti del passato. “Anche in questo caso, nulla fa pensare che le attuali società dominanti registreranno performance inferiori o che non saranno dei buoni investimenti, ma suggerisce che gli investitori dovrebbero cercare altrove il prossimo gruppo di società a forte crescita”, concludono da Goldman Sachs.
