Prologo
Questa domanda è emersa in un recente caso deciso da una corte federale americana in una complessa controversia che ha visto contrapposte una galleria tedesca ed un suo cliente a Cady Noland, notissima artista americana.
Nel 1990 il collezionista ha acquistato dall’artista una scultura in legno intitolata Log Cabin Facade. La scultura rappresenta, in dimensioni reali, la facciata di una baita formata da tronchi di legno.
Qualche mese dopo il collezionista ha chiesto all’artista il permesso di verniciare la scultura al fine poterla collocare all’aperto, proteggendola in tal modo dalle intemperie. L’artista ha acconsento alla richiesta del collezionista e dal 1995 al 2000 l’opera è stata esibita all’aperto in un museo in Germania.
Dopo il restauro, il collezionista, tramite una galleria tedesca, ha tentato di vendere l’opera negli Stati Uniti, incontrando l’opposizione dell’artista, che ha rinnegato l’opera, impedendone di fatto la vendita.
Giuseppe Calabi
La questione si risolse a favore di Sotheby’s in quanto il mandato a vendere le attribuiva il diritto di ritirare un lotto qualora risultassero dubbi sulla sua autenticità o attribuzione. Nel nostro caso l’artista ha anche denunciato la violazione del proprio diritto d’autore ricon- ducendola al fatto che malgrado l’opera fosse stata ricostruita in Germania, la galleria avesse inviato al potenziale acquirente ame- ricano fotografie e disegni dell’opera e i tronchi utilizzati per la ricostruzione provenissero da un fornitore Usa. In questo modo ha tentato di soddisfare il requisito di territorialità universalmente previsto dalla disciplina del copyright, inclusa quella americana.
La questione è delicata: non è possibile sapere con quale grado di accuratezza il collezionista abbia fatto restaurare l’opera e se il risultato del restauro fosse tale da offendere l’onore e la reputazio- ne dell’artista. Certamente sarebbe stato consigliabile coinvolgere l’artista e chiedergli l’autorizzazione a restaurare l’opera ovvero l’indicazione di un restauratore di fiducia dopo aver constatato i gravi danni causati dal fatto che per cinque anni l’opera era stata esposta in un luogo aperto alle intemperie ed agli sbalzi climatici. Del resto, il collezionista aveva chiesto alla Noland l’autorizzazione quando aveva deciso di verniciare l’opera.
Anche in Italia gli artisti spesso chiedono di essere coinvolti nelle operazioni di restauro e l’articolo 21 della legge sul diritto d’autore attribuisce loro il diritto morale di opporsi a qualsiasi modifica che possa essere di pregiudizio ai propri onore e reputazione. In Italia questo diritto spetta anche ai parenti (coniuge, discendenti ed ascendenti), mentre negli Usa cessa con la morte dell’artista. Indipendentemente degli aspetti tecnici su quale sia la legge applicabile (quella americana o quella tedesca, dove la ricostruzione dell’opera è avvenuta) a me sembra che nel caso in esame vi sia una contraddizione di fondo: una cosa è dire che l’opera male restaurata non sia più riconducibile al nome dell’artista, cha la ripudia.
Un’altra cosa è dire che la vendita di quell’opera o le attività prodromiche alla vendita (acquisto dei tronchi necessari per la ricostruzione ed invio di fotografie a supporto di una vendita dell’opera restaurata) costituiscano violazione del diritto d’autore dell’artista, ossia del diritto dell’artista di controllare la riproduzione (anche fotografica) delle proprie opere. In altre parole, se l’artista afferma che l’opera restaurata non è più di sua mano e, quindi, non può essere esibita e venduta come tale, può contemporaneamente sostenere che l’opera (ricostruita) sia una riproduzione non autorizzata e quindi costituisca una violazione del suo diritto d’autore?
L’artista avrebbe anche potuto sostenere che l’opera ricostruita potesse essere considerata un lavoro “derivato” o come la nostra legge sul diritto d’autore afferma una “elaborazione di carattere creativo” dell’opera originaria e quindi avrebbe richiesto una sua autorizzazione. La corte federale ha deciso a favore del collezionista: la motivazione è complessa, ma sul punto del diritto morale si regge sul fatto che il Vara è entrato in vigore dopo la creazione dell’opera e, quindi, l’artista non ne sarebbe titolare. Il caso insegna tuttavia che se si vuole vendere un’opera di un’artista vivente o morto da meno di 70 anni (tale è la durata dei diritti d’autore) e si reputa necessario pubblicare (ad esempio in un catalogo d’asta) o rendere disponibili a potenziali acquirenti fotografie dell’opera, è bene chiedere il permesso all’artista o ai suoi eredi. E se questi -si accorgono di un restauro male eseguito, possono anche ripudiare l’opera.
Sharon Hecker
ha bisogno di essere riparato, senza considerare altri fattori, inclusi la mente, il cuore e l’anima dell’artista, fisicamente intangibili, che fanno parte dell’opera, allora riduciamo l’opera d’arte ai soli elementi materiali più elementari che la compongono.
Credo che sia un errore vedere l’arte in questo modo, ma penso anche che questo sia il messaggio che questo caso ha trasmesso all’artista: che la sua opera d’arte sia stata trattata come se fosse semplicemente composta da tronchi che possono essere facilmente sostituiti. Riflettiamo sul motivo per cui questo atteggiamento possa essere deleterio per l’arte. Da un punto di vista storico-artistico, ci sono sempre tre aspetti da considerare: uno è il materiale utilizzato per realizzare l’opera, un altro è il particolare know- how o abilità nel mettere insieme questi materiali in modo particolare (questo può dipendere dalle abilità delle persone, così come dai momenti storici in cui certe tecniche sono disponibili), e una terza parte, estremamente delicata, è il continuo pensiero creativo dell’artista mentre lavora con questi materiali e tutte le competenze specialistiche che sceglie di utilizzare per far emergere qualcosa di più: una creazione ricca di significato.
Idealmente, tutti e tre gli aspetti entrano nella realizzazione di un’opera d’arte ed esistono in costante dialogo tra loro. Ad esempio, quando uno scultore realizza una fusione in bronzo, c’è il materiale bronzeo, il know-how o l’abilità dei vari specialisti tecnici coinvolti in un processo di fonderia, ma anche l’artista che prende continue decisioni su come l’opera finale deve apparire e come l’oggetto che sta emergendo produca un significato più profondo. Immaginiamo uno scenario diverso da quello esaminato: quando l’artista è viva, potremmo in realtà considerare meraviglioso avere la possibilità di parlarle di una sua opera quando questa viene danneggiata.
Un collezionista sofisticato potrebbe anche essere entusiasta se l’artista, guardando in retrospettiva una sua opera precedente, la restaurasse in modo un pò diverso da come si presentava originariamente. Questo è un atto creativo ed è un dono inestimabile avere il privilegio di partecipare a quel momento vitale ed emozionante di cambiamento. L’opera danneggiata, in questo caso, può entrare in un nuovo dialogo con la sua autrice e può addirittura guadagnarsi una vita più ricca. Dopo la morte di un’artista, però, questo emozionante processo di “restauro vivente” cessa. In alcuni casi fortunati, c’è un erede o un artigiano di fiducia che può guidare il restauro con scrupolo- so rispetto della volontà dell’artista. Questo però può durare solo per una generazione.
Spesso noi storici dell’arte, in collaborazione con gli scienziati e i restauratori, troviamo opere d’arte che nel tempo sono state “restaurate in modo creativo”. Ci si chiede dove si possa tracciare la linea di demarcazione tra le intenzioni originali dell’artista e il restauro postumo. A che punto la storia dell’arte non può più accettare che un’opera restaurata sia opera dell’artista? Mi sembra la stessa domanda che Cady Noland si sia posta rinnegando l’opera. E per questo motivo, sempre più arti- sti contemporanei non rilasciano più certificati di autenticità ai proprietari.
Non vogliono “sigillare l’autenticità” di un’opera per sempre e in qualsiasi circostanza, dopo averne perso il controllo quando l’opera entra nel mercato. Se da un lato è corretto restaurare le opere danneggiate, dall’altro l’approccio utilizzato nel caso di Noland sembra errato. Se consideriamo le opere d’arte come arte, allora dobbiamo rispettare l’artista vivente, che può essere libera di cambiare idea, disapprovare, essere insoddisfatta di come la sua creazione è stata restaurata, ed essere scontenta che sia stata condotta senza consultarla. Se i collezionisti considerano le opere d’arte come un mero bene materiale e un pezzo di proprietà personale, sentendo di poter fare con l’opera d’arte qualsiasi cosa vogliano, perdono un’opportunità inestimabile di diventare in qualche modo, loro stessi, parte del processo creativo.