La forma di previdenza integrativa più diffusa, con circa 3.420.000 aderenti, è quella rappresentata dai Pip, che sono gestiti da Sgr o Sim
Per spingere la previdenza integrativa si potrebbe allungare il periodo di silenzio-assenso, con nuovi incentivi per gli investimenti green e in economia reale domestica e con una riforma fiscale incentivante
Siamo ancora agli albori di un mercato
È una buona notizia, ma ancora non basta. Perché se il patrimonio generale degli istituzionali nelle diverse forme di previdenza integrativa è passato da circa 400 miliardi del 2007 a 953 miliardi del 2020, secondo gli ultimi dati Ocse, il nostro Paese si classifica al 14° posto su 36, per patrimonio dei fondi pensione. La relazione di Covip, la Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione, a giugno 2020 indicava per il 2019 un patrimonio per questa categoria di 178 miliardi di euro, insufficienti per sopperire ai fabbisogni previdenziali di una popolazione sempre più vecchia. “Proseguirà sia la riduzione della popolazione sia l’incremento del peso della componente anziana sul totale: il valore massimo si registrerà nel 2050, quando la quota di ultrasessantacinquenni raggiungerà il 34%”, conferma Brambilla. E se “prendiamo 178 miliardi, li dividiamo per il numero di iscritti ai fondi pensione, pari a 8.263.593, otterremo 22.400 euro pro capite maturati a oggi. Troppi pochi per sopperire alle future necessità individuali”, aggiunge Andrea Carbone, economista, fondatore di Smileconomy.
L’iscritto tipo al fondo pensione
“L’iscritto tipo a un fondo pensione è maschio (62%), ha 46 anni, versa 225 euro al mese e al termine preferisce ritirare un capitale invece di una rendita integrativa. Le proiezioni oggi indicano in 371 euro netti mensili la rendita integrativa che avrà chi oggi è già iscritto ad un fondo pensione. Siamo ancora all’anno zero della previdenza integrativa: ci sono tre italiani su quattro che ne sono ancora, completamente, fuori”, continua Carbone. Una reticenza inspiegabile per una serie di ragioni. La prima è che la pensione pubblica non basta più e lo sappiamo ormai dal 1993, anno di pubblicazione del legislativo 124 che ha introdotto forme di accantonamento alternativa come i fondi pensione e i piani individuali pensionistici (Pip). Per chi andrà in pensione nel 2030 la pensione pubblica ammonterà tra il 60-70% dell’ultima retribuzione e tra il 40% e il 50% per il lavoratore autonomo. In un contesto in cui la quota che l’Italia destina al welfare è al massimo storico: il 56,08% di circa 800 miliardi di euro e la spesa assistenziale a carico della fiscalità generale è in continuo aumento, passata dai 73 miliardi del 2008 agli attuali 114,27, con un tasso di crescita annuo superiore al 4%.
Perché conviene investire in previdenza integrativa
La seconda ragione è che investire in fondi pensione conviene: perché i rendimenti sono più elevati di quelli della pensione pubblica. I fondi investono sui mercati finanziari, mentre l’Inps rivaluta i contributi versati in base all’andamento dell’economia italiana, e dunque sostanzialmente del Pil, stagnante da almeno un ventennio. Ancora, lasciare il Trf in azienda ha reso in media negli ultimi dieci anni l’1,8% all’anno, (cumulativamente il 20%), contro il 3,7% dei fondi aperti (43,2% cumulato) e il 3,6% dei negoziali (corrispondente a un rendimento cumulato del 42,8%). È quanto mai necessario spingere sulla previdenza integrativa. Lo si può fare, dal fronte governativo, in molti modi. Allungando il periodo di silenzio-assenso, con nuovi incentivi per gli investimenti green e in economia reale domestica (parte importante dei portafogli dei fondi pensione), con una riforma fiscale che elimini la tassazione annuale e riporti all’11% (o anche meno) la fiscalità sui rendimenti e, soprattutto, più cultura previdenziale e comunicazione sociale.
Il ruolo dei consulenti e dell’industria
E su questo ultimo punto molto possono fare anche i consulenti e l’industria del risparmio gestito. Lo suggerisce anche un altro dato: la forma di previdenza integrativa più diffusa, con circa 3.420.000 aderenti, è quella rappresentata dai Pip, che sono gestiti da Sgr o Sim. Il che indica che ci si occupa con maggiore probabilità di pensioni quando si ha di fronte un consulente che aiuta a dedicare la giusta attenzione al tema e a capire cosa fare e come. Seguono, in termini di preferenze, i fondi chiusi (o negoziali), con circa 3.160.206 aderenti. A distanza si trovano infine i fondi aperti, con circa 1.500.000 di aderenti. Allora bisognerebbe spiegare quali sono gli effetti vantaggi per chi aderisce a questi strumenti, che vanno da un trattamento fiscale agevolato, alla possibilità di ottenere in anticipo una parte dei risparmi accumulati. Fino all’obbligo di legge, per i datori di lavoro di lavoratori dipendenti, di integrare una somma simile a quella conferita al fondo dal lavoratore stessa (che ne aumenta alla fine l’assegno pensionistico risultante). Si può invece anticipare la prestazione pensionistica con la “rendita integrativa temporanea anticipata” (Rita) nel caso che sia cessata l’attività lavorativa; che manchino non più di 5 anni rispetto all’età per la pensione di vecchiaia; che esista il requisito contributivo complessivo minimo di 20 anni nei regimi obbligatori di appartenenza. Oppure in un altro caso, se l’attività lavorativa è conclusa e ci si trovi in condizione di inoccupazione da oltre 24 mesi, pur mancando fino a 10 anni rispetto all’età per la pensione di vecchiaia. In entrambi i casi è necessario aver maturato almeno 5 anni di partecipazione alla previdenza complementare.
Quanto si deve accantonare? La simulazione
Quanto serve accantonare per avere una pensione congrua? Meno di quanto ci si aspetti. Le simulazioni sono state effettuate sa Smileconomy sulla base dell’obiettivo di una rendita vitalizia di 1.000 euro netti al mese. “Si va dai 477 euro al mese di un 30enne che investisse in una linea a rischio medio-alto, ai 1.722 euro al mese di un 50enne che investisse in una linea a basso rischio. Come sempre, il tempo ed i mercati sono dei grandi alleati: prima si inizia, migliori saranno i risultati – spiega Carbone – Viene indicata anche l’efficienza finanziaria dell’operazione: quanti euro si possono ottenere a vita media a fronte dell’investimento di un euro”. Un indicatore sempre maggiore di uno, utile in particolare per i casi dove per avere una rendita vitalizia di 1.000 euro è necessario investirne una cifra maggiore: naturalmente è la dimensione temporale a fare la differenza.
(Articolo pubblicato su numero di ottobre del Magazine We Wealth)