Il fortunato libro di Nassim Nicholas Taleb, «The Black Swan», fu pubblicato nel 2007, e promuoveva riforme atte a creare ‘antifragilità’ nelle nostre economie, a renderle capaci di sopravvivere a eventi che, come i rarissimi cigni neri, hanno piccolissime probabilità di verificarsi (sia detto per inciso che se Taleb fosse vissuto in Australia, avrebbe dovuto titolare «The White Swan», dato che in Australia i cigni sono normalmente neri).
Fortunatamente, al cigno nero si è opposto un ‘cavaliere bianco’, anzi due. Così come la guerra fa emergere il peggio e il meglio degli uomini, una grave crisi economica ha costretto la politica economica a ‘cambiare pelle’. Qualcosa che era già stato previsto dall’economista ucraino-americano Jacob Marschak, uomo dall’eclettica carriera (basti dire a che a 19 anni, nel 1918, diventò ministro del Lavoro nella Repubblica sovietica del Terek, repubblica che – inciso nell’inciso – ebbe vita breve). Comunque Marschak, in un articolo comparso su «The American Economic Review» del 1945, si chinò sulla genesi dei cicli economici e fece un paragone fra l’economia e le altre scienze: nella sismologia, per esempio, i progressi «sono dovuti a migliori strumenti di rilevazione, a più affinate teorie e a più frequenti esami dei terremoti». Nel caso dell’economia, concludeva Marschak, «è tutto dovuto ai terremoti». Insomma, l’economia cambia pelle quando nel mondo reale, in quanto differente dalle rappresentazioni che ne fanno i modelli economici, succede qualcosa di imprevisto. E come reagì l’economia come scienza, quando i ‘cigni neri’ vennero a colpire l’economia come apparato produttivo?
Reagì con i due cavalieri bianchi di cui sopra. Da un lato i Governi si ricordarono del famoso apologo di Keynes (per sostenere l’economia, sotterrate bottiglie piene di soldi e dite alla gente di scavare), e, ignorando le ossessioni teutoniche sull’altrettanto famoso ‘Schuld=debito=colpa’, andarono spendendo e spandendo, sostituendo domanda pubblica alla domanda privata e mandando al settimo cielo deficit e debiti pubblici. Dall’altro lato, le Banche centrali assecondarono questo sostegno creando moneta in quantità bulimiche (vedi grafico) mediante acquisto di titoli pubblici e privati.
Un interessante Working Paper del National Bureau of Economic Research (“Liquidity, liquidity everywhere, not a drop to use – why flooding banks with central bank reserves may not expand liquidity”, di Viral V. Acharya e Raghuram Rajan) appena pubblicato spiega come la creazione di moneta non porti necessariamente a far fluire la liquidità là dove sarebbe necessaria. Il che è vero. Le banche che ne ricevono in abbondanza potrebbero lasciarla lì dov’è (e rifluirebbe, in ultima analisi, alla Banca centrale) perché così irrobustiscono la propria situazione patrimoniale sotto cui pendono i ratios prescritti dai regolatori. E in ogni caso, gli effetti sull’economia reale dipendono, sempre in ultima analisi, da quanto questa liquidità si trasforma in maggiore spesa effettiva, per consumi o per investimenti. E questa ‘trasformazione’ dipende da decisioni del settore privato o dei Governi, non della Banca centrale. È per questo che le Banche centrali, consce del fatto che il sostegno all’economia non dipende solo da loro, esortavano i Governi a spendere di più. E questo ‘combinato disposto’, ha fatto sì che le due crisi che abbiamo sperimentato non siano tracimate da recessione in depressione.
(Articolo pubblicato sul Magazine We Wealth, numero di marzo)