L’erotismo di Iva Lulashi: “naturale come l’acqua”
‘Love as a glass of water’ è il titolo del Padiglione Albania alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ‘Stranieri ovunque’, curata da Adriano Pedrosa (dal 20.04.2024 al 24.11.2024). L’amore è (semplice) come bere un bicchiere d’acqua. Un tema urgente, legato alla sessualità femminile e alla censura cha la opprime. L’artista incaricata del progetto è Iva Lulashi (Tirana, 1984). L’abbiamo raggiunta dopo avere visitato l’Arsenale, luogo in cui è albergato il padiglione.
Iva Lulashi, Qualunque sia il suo nome, 2021, olio su tela, 69 x 69 cm, Courtesy the Artist, Collezione privata, Photo Courtesy Ludovica Mangini
Qual è il progetto alla base del Padiglione Albania?
“Il titolo non è nuovo: lo avevo già utilizzato per il premio Cairo, per un’installazione di più lavori riguardanti il rapporto tra comunismo ed erotismo. La frase è ripresa da una rivoluzionaria russa, Aleksandra Kollontaj (1872-1952), la quale invitava le donne a vivere la sessualità e l’amore in maniera libera, con la naturalezza del bere un bicchiere d’acqua. Mi ero avvicinata a questo concetto, ma poi non lo avevo realmente approfondito. L’ho proposto allora all’inizio di quest’anno ad Antonio (Grulli, il curatore, ndr), che ne è stato subito entusiasta. Sia perché la tematica riguarda i miei lavori sia perché vi si palesa un legame con Venezia grazie all’acqua e al vetro”.
Iva Lulashi
Negli anni della Guerra Fredda in Albania, la sessualità era dunque repressa?
“Totalmente. Era un fenomeno della vita sociale totalmente represso. Anche i baci nei film erano camuffati. Se si parlava d’amore, si parlava direttamente di famiglia. Il comunismo è durato fino al 1992, io sono nata nel 1988… Quindi questo clima non l’ho vissuto direttamente. Ma l’ho sempre percepito. Ho iniziato a dipingere facendo ricerca sulla memoria personale grazie a vecchie foto di famiglia, poi la ricerca è diventata sociale, collettiva. Dalle sole fotografie potevo capire che c’era rigidità anche nella postura e nell’esporsi. Caduto il comunismo, la radice della sua censura era ancora molto forte, ne venivo a conoscenza anche dai racconti. Successivamente ho rielaborato il tutto. Il vissuto di un’esperienza simile per un popolo è collettiva, la si assorbe con il latte materno”.
Iva Lulashi, Bea e i benpensanti, 2024, olio su tela, 30 x 40 cm, Courtesy the Artist, Photo Courtesy Andrea Rossetti
Ha iniziato a disegnare da piccolissima?
“Si. Mio padre dipingeva, disegnava. Non era un professionista, ma iniziai a imitarlo. La mia prima ‘opera’ fu una rosa: avevo cinque anni e la attaccai al muro. Mia madre non poteva credere che l’avessi fatta io. Fu quello il mio primo contatto con un pubblico, con l’esterno. Percepirlo già da bambina ti dà una certa spinta per continuare. Poi non più smesso. Ho disegnato sempre, soprattutto con la penna. Alle superiori, ho fatto ragioneria: arrivare in accademia ‘impreparata’ mi è stato utile. Arrivare poco strutturata, con un bagaglio ridotto di tecnica, all’inizio mi ha fatto sentire più indietro rispetto a coloro che magari avevano fatto il liceo artistico. Poi mi sono ripresa”.
Iva Lulashi dove ha fatto l’accademia?
“A Venezia. Ma vivevo già in Italia: mi sono trasferita qui a 10 anni, a Pordenone”.
Quando è che ha preso consapevolezza dell’urgenza di trattare il tema dell’erotismo in rapporto al comunismo?
“Ero al mio penultimo anno in accademia. Dipingendo una danza della pioggia, mi casca una macchia di colore sul petto di una sagoma femminile, esattamente nel punto dove avrebbe dovuto esserci il capezzolo. La cosa mi colpisce. D’istinto, dipingo anche l’altro. Quella figura di donna era in mezzo a un cerchio di soli uomini: l’immagine in sé suscitava un po’ di tensione. Aveva le braccia alzate, un sintomo di libertà. Il seno scoperto non aveva fatto che rendere quel gesto ancora più forte”.
Iva Lulashi, Zeu pater, 2020, olio su tela, 149 x 196 cm, Courtesy the Artist, Collezione Giuseppe Iannaccone, Photo Courtesy Ludovica Mangini
Un po’ come in ‘BalKan Epic’ di Marina Abramovic?
“Esatto, sì. È stato allora che è germinato il mio progetto, anche se il seguito non è stato immediato. Da quella serendipità poi ho iniziato a dipingere scene che potevano essere di propaganda, per esempio di ginnastica collettiva, ma zoomando sulle natiche. Bastava aggiungere o togliere un solo dettaglio perché l’immagine diventasse erotica, per fa sì che i corpi avessero un tipo di rapporto diverso rispetto a quello intenzionale; qualsiasi gesto da innocuo poteva diventare ambiguo. Ci sono voluti due anni di ricerca perché nascesse la mia installazione di lavori Eroticommunism. Dallo sviluppo di quel tema ha preso vita la mia prima personale, a Milano, presso Prometeo, la mia prima galleria. Man mano mi sono accorta che la questione della censura non era necessariamente legata al comunismo albanese: potevo riscontrarla anche nel qui e nell’ora, in molte forme”.
Iva Lulashi, I’ve Been Gone Too Long, 2017, olio su tavola di legno, d. 12cm, Courtesy the Artist, Collezione Giuseppe Iannaccone, Photo Courtesy Ludovica Mangini
All’inizio dell’utilizzo della chiave erotica, Iva Lulashi ha mai provato un po’ di imbarazzo, un senso di pudore derivante dalla sua molto pudica cultura di provenienza?
“Sì, assolutamente. Inizialmente mi nascondevo. Persino in accademia speravo che le persone intorno a me non si accorgessero del mio lavoro. Provavo imbarazzo soprattutto nei confronti del genere maschile, temevo di essere messa in ridicolo, che mi si potessero fare battute inappropriate. Mi sentivo a disagio. Ma provavo imbarazzo anche nei confronti di mia madre: all’inizio quei dipinti non glieli facevo vedere. Poi, gradualmente, mi sono resa conto che serviva solo instaurare un dialogo. E infatti da lei mi sono sentita totalmente compresa”.
Iva Lulashi, Più pallida dell’erba, 2021, olio su tela, 70 x 70 cm, Courtesy the Artist, Collezione Giuseppe Iannaccone, Photo Courtesy Ludovica Mangini
“Anche tornare in Albania a presentare Eroticommunism a Mediterranea (la biennale dei giovani artisti, ndr) non è stato facile. Ero timorosa, ma poi sono stata accolta bene. Certo il giudizio e la malizia non mancano mai, ma anche a Milano, durante le mie visite in studio, è capitato che si creasse qualche momento di imbarazzo, di essere fraintesa da alcune persone di sesso maschile che, vedendo una giovane donna a trattare questo tipo di argomenti, si creavano delle ‘attese’ nei miei confronti. Tuttavia più vado avanti, più mi sento spronata a maneggiare questi argomenti. E se prima facevo fatica a parlarne, adesso capisco che si tratta di uno strumento per portare avanti certe istanze”.
Che reazioni ha riscontrato a livello istituzionale dall’Albania relativamente al lavoro per la Biennale?
“Il Ministero della Cultura albanese e tutto il suo apparato mi hanno molto supportata. Per la prima volta mi sono resa conto della profonda evoluzione socioculturale in corso a Tirana. Le dipendenti del ministero per dire sono tutte giovani donne, molto in gamba. Hanno un modo di confrontarsi molto evoluto, per nulla scontato. La differenza rispetto all’epoca della mia prima mostra è palpabile”.
Iva Lulashi, L’unico argomento possibile, 2024, olio su tela, 80×60 cm, Courtesy the Artist, Photo Courtesy Andrea Rossetti
Si percepisce che la sua è una lotta gioiosa, ironica. A volte l’ironia è l’arma più potente…
“Si. Con i miei lavori non vogliono essere aggressiva. Non desidero spaventare nessuno, non intendo innescare nessuna guerra. Vorrei solo far arrivare il mio messaggio con quanta più naturalezza possibile, come suggerisce il titolo del padiglione”.
Pensa di abbandonare la chiave erotica, prima o poi?
“Questo dell’erotismo è un vaso di Pandora, perché vi si possono davvero collegare molte questioni. La libertà in generale, l’espressione dell’omosessualità, le tematiche legate all’abuso, alla religione. Sono davvero convinta che l’erotismo sia soltanto una base che si può connettere a molti argomenti. Per ora mi sento di non averlo ancora esaurito”.
Quali sono le artiste che ama di più o che semplicemente sente a lei più affini?
“La prima artista cui mi sono avvicinata realmente è stata Marlene Dumas (protagonista di una splendida retrospettiva a Palazzo Grassi, Venezia, nel 2022-2023, ndr). Poi sicuramente Artemisia, Tamara de Lempicka. Fra le ultra contemporanee apprezzo moltissimo Giulia Andreani (nella collezione Maramotti, ndr): le erano piaciuti i miei lavori, mi aveva incoraggiata. Ora è esposta al Padiglione centrale. Ambera Wellmann (la prima personale dell’artista in Italia si è tenuta alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ndr), Rebecca Moccia (ora in mostra alla Fondazione Zegna, ndr), Doruntina Kastrati, che a Venezia rappresenta il padiglione kosovaro”.
Come mai la scelta di Antonio Grulli come curatore?
“Aveva scritto un testo per una mia mostra un paio di anni fa. Ci conoscevamo, ma non troppo: non era finita la ‘freschezza’. Ha spesso lavorato con l’Est Europa, c’è stima reciproca. È la filosofia che ha improntato la formazione di tutto il team Biennale, piccolo e coeso: ci conoscevamo già tutti. La stessa scelta di riproporre la struttura della mia casa studio a Milano deriva dall’aver voluto ricreare un ambiente intimo. Periodicamente amo aprire la mia dimora a collezionisti e non solo, senza la tensione tipica del ‘white cube’ durante le inaugurazioni”.
Del resto, sorbire l’arte deve poter essere naturale come bere un bicchiere d’acqua.
Nel momento in cui scriviamo (luglio 2024) l’artista ci comunica che le quotazioni delle sua opere “sono nella forchetta 8.000 – 30.000 euro, raddoppiate rispetto a pochi mesi fa (pre Biennale)”.
Articolo originariamente apparso su We Wealth Magazine n.71. Abbonamenti qui.