“Vogliamo mettere a disposizione dei nostri clienti tutti gli strumenti possibili”, chiosa Giuliano D’Acunti, direttore commerciale di Invesco
L’acquisizione di OpppenheimerFunds ha permesso alla società di sviluppare competenze sui mercati emergenti e sul global equity
Lo scorso mese la società aveva lanciato cinque nuovi fondi flagship Ucits nella regione Emea
Un’acquisizione da 1.200 miliardi di dollari, che ha permesso alla società di gestione statunitense di colmare alcune competenze specifiche, in particolare sul mercato global equity e su quello dei mercati emergenti, sia lato equity che obbligazionario. La combinazione, infatti, ha fatto da traino per l’ampliamento della gamma di prodotti offerti, delle strategie e delle modalità attraverso le quali Invesco punterebbe a incontrare le esigenze dei clienti.
“Il messaggio vuole essere chiaro: rendere ancora più salda, forte, chiara e importante la partnership di Invesco con i nostri clienti – continua D’Acunti – mettendo a loro disposizione tutti gli strumenti possibili e immaginabili, e creando la migliore esperienza per i nostri partners”.
Lo scorso mese, la società aveva lanciato infatti cinque nuovi fondi flagship Ucits nella regione Emea (Europa, Medio Oriente e Africa), aperti sia ai clienti istituzionali che retail e distribuiti attraverso la piattaforma Sicav lussemburghese di Invesco. Ma non solo. A essere presentate sono “due strategie sulla componente global equity che oggi contano aggregate oltre 18 miliardi di masse – analizza D’Acunti – Poi abbiamo la componente emerging markets con oltre due miliardi, e infine una fortissima competenza sul mercato degli equity emerging markets con oltre 40 miliardi di asset under management”.
“In questo lavoro bisogna essere disciplinati e non spaventarsi per le cose sbagliate – spiega Randy Dishmon, gestore del Global focus equity fund di Invesco – Quello che bisogna fare veramente è sapere cosa conta e non farsi distrarre dal ‘rumore’, prima di investire del denaro”. Secondo Dishmon, in particolare, sono tre le domande a cui bisogna rispondere nelle proprie scelte di investimento: quali sono le aziende che vale la pena possedere, a che prezzo bisogna pagarle, e se il team di gestione lavora realmente per gli azionisti.
“Le aziende che guadagnano più del costo del capitale, hanno una marginalità del 25% e si quotano a Wall Street per raccogliere denaro, non fanno per noi – continua Dishmon – le aziende forti lo sono anche in situazioni di crisi finanziaria”. Per non dimenticare, poi, anche una certa attenzione verso la sostenibilità. “Chiunque sia bravo a investire del denaro incorpora Esg nel proprio processo, ma bisogna assicurarsi che l’azienda faccia la cosa giusta per i propri azionisti – conclude – Non mi piace come l’industria sta approcciando l’Esg con dei punteggi, non si possono quantificare, ma bisogna vedere come funzionano realmente”.
Un focus sul lungo periodo
“Il nostro approccio non è bottom-up ma top-down”, chiosa invece Wim Vandenhoeck, gestore dei fondi Oppenheimer emerging markets local debt & international bond strategies di Invesco. “Noi costruiamo portafogli tra il 6 e il 10% di volatilità – spiega Vandenhoeck – utilizziamo meno volatilità e gestiamo dei portafogli meno rischiosi rispetto al benchmark”.
Sulla stessa linea d’onda anche Nikki Noriega, client portfolio manager for the emerging markets equity team, che presenta l’Emerging markets equity strategy di Invesco. “Il nostro approccio è non seguire il benchmark, la crescita del pil, le valute, ma investire nel lungo termine, dai tre ai cinque anni – spiega Noriega – Quello a cui pensiamo è la sostenibilità, ovvero aziende che hanno un vantaggio competitivo e possono continuare ad andare bene per 5-10 anni o anche di più”.