L’inversione di tendenza relativamente rapida è in netto contrasto rispetto a quanto verificatosi in scia della crisi finanziaria globale del 2008-2009, quando il numero dei deal ha impiegato diversi anni a recuperare terreno. La differenza è dovuta a vari elementi. In primo luogo, l’industria ha raccolto 2.600 miliardi di dollari di capitale, più del doppio di quello che aveva all’inizio dell’ultima recessione, e che al momento è fermo nelle casse delle società.
Il tempo gioca contro questo capitale, il che significa che le società cercano urgentemente di fare affari. In secondo luogo, c’è un ampio incentivo a investire: il settore – con l’ultima recessione – ha imparato che gli investimenti fatti vicino alla fine del ciclo tendono a garantire rendimenti superiori alla media. In effetti, la finestra per trovare asset a prezzi vantaggiosi potrebbe essersi già chiusa. I mercati azionari e il debito pubblico hanno infatti già ampiamente recuperato rispetto ai minimi toccati durante il Covid.
Gli investitori, inoltre, ritengono che questa flessione abbia una natura diversa rispetto alla precedente crisi. “Lo shock finanziario globale del 2008 ha messo in luce i grossi problemi strutturali del sistema bancario, invece la contrazione dovuta al Covid-19 è stata associata più a un disastro naturale, che non rifletteva la debolezza della domanda sottostante. Resta ovviamente il rischio reale che l’effetto Covid-19 sull’attività dei consumatori duri abbastanza a lungo da trasformarsi in una crisi finanziaria, ma per ora il mercato scommette su qualcosa di più ottimistico. Non c’è dubbio, tuttavia, che la perdurante incertezza renda difficile consolidare la fiducia di acquirenti e venditori, considerando anche che la volatilità del mercato rende complesso fare valutazioni”, continua Roberto Fiorello, responsabile della practice di Private Equity di Bain & Company in Italia.
Rispetto al dealmaking e alle exit, la raccolta dei fondi ha retto relativamente bene nel primo semestre dell’anno. Ciò è dovuto in gran parte al fatto che i fondi chiusi nei primi due trimestri hanno beneficiato dei capitali impegnati prima della pandemia. Il capitale raccolto globalmente nel primo trimestre ha effettivamente superato i livelli del 2019, ma è sceso del 18% rispetto all’anno precedente nel secondo trimestre. Resta ovviamente da vedere quanto i limited partner (LP) impegneranno capitali nella seconda metà dell’anno, ma la loro crescente fiducia riflette due aspetti. In primo luogo, i mercati azionari in ripresa hanno ripristinato l’equilibrio del mix di attività nei portafogli degli LP, rendendo più facile l’allocazione di nuovi capitali al private equity. In secondo luogo, le preoccupazioni per la liquidità si sono attenuate, in parte perché le LP sanno di potersi rivolgere a un mercato secondario sano, se necessario. Infine, LP – seppur in maniera estremamente selettiva – rimangono investiti nell’asset class nel lungo periodo e riconoscono l’importanza di mantenere un ritmo costante per diversificare le annate.
Nel frattempo stanno emergendo sempre più chiaramente tre trend. La competenza sul settore è più importante che mai. Se non si dispone di una profonda conoscenza settoriale, sarà difficile trovare la risposta giusta agli effetti e alle discontinuità dovute al Covid-19. Il piano di creazione del valore potrebbe essere obsoleto. In un contesto di cambiamenti così rapidi, i gestori di fondi devono fondamentalmente rivalutare ogni piano di business nei loro portafogli. Basti pensare alla spesa online, il cui successo continua dopo il lockdown. La rivoluzione digitale. Il business del private equity era ostinatamente analogico, ogni incontro si svolgeva di persona. Ora non più. Molte imprese hanno ripensato i propri modelli di business. E i GP sono generalmente aperti a sostituire con videoconferenze riunioni prima fatte rigorosamente di persona.