L’operazione è molto semplice perché si costituisce con atto notarile, e l’accordo diventa un atto pubblico che viene trascritto a margine dell’atto di matrimonio e nei registri immobiliari e dei beni mobili registrati e in esso vincolati.
“La mancata annotazione fa venir meno l’opponibilità dei coniugi ai creditori: ed è quindi importante non trascurare questo aspetto – continua Frigieri – Il patto manterrà l’efficacia fino al suo scioglimento che avverrà con l’estinzione del vincolo coniugale, a meno che non ci siano figli minori, nel qual caso, per scioglierlo, si dovrà aspettare la loro maggiore età”.
I vantaggi dello strumento risiedono essenzialmente nella creazione del vincolo di destinazione di cui abbiamo detto ampiamente. “Si tratta però di un vantaggio virtuale perché i beni rimangono intestati ai costituenti che, oltretutto, devono essere coniugati – dice l’avvocato – In linea di massima, l’idea è che con questo strumento si mettano i beni destinati al riparo da eventuali aggressioni di creditori. Ma non è del tutto vero”.
Lo strumento esiste nell’ordinamento italiano da mezzo secolo, ma in tutto questo tempo non è stato chiarito fino in fondo il concetto che lega il divieto di pignoramento dei beni nel fondo all’interpretazione dei bisogni della famiglia.
“Secondo dottrina e giurisprudenza, i beni sarebbero pignorabili quando il debito è stato contratto per far fronte ai bisogni della famiglia – spiega Frigieri – e quando è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, la cui estraneità è, però, ignota al creditore. Mentre non sarebbero pignorabili quando il debito è stato contratto per scopi estranei ai bisogni della famiglia, la cui estraneità è invece nota al creditore”.
Nei bisogni della famiglia possono rientrare debiti contratti, per esempio, per l’acquisto dell’abitazione per la famiglia ed il relativo mantenimento, comprese le spese condominiali; o il debito per l’acquisto del veicolo per uso privato. Ma anche debiti contratti per soddisfare bisogni indiretti, “come il pieno mantenimento ed armonico sviluppo della famiglia, nonché il potenziamento della sua capacità lavorativa, restando escluse solo le esigenze voluttuarie o caratterizzate da intenti meramente speculativi”, secondo la formula ricorrente a partire dal pronunciamento della Cassazione numero 134 del 7 gennaio 1984, e poi più volte ribadita.
La giurisprudenza ha ritenuto che rientri nei bisogni indiretti anche il debito tributario. “Tali orientamenti consolidati e piuttosto limitativi dell’efficacia del fondo patrimoniale, si sono ridimensionati soltanto di recente con una pronuncia della Cassazione civile che ha ridotto l’ampia portata delle decisioni rese sull’argomento”, sostiene Frigieri.
La Cassazione afferma che “se il credito per cui si procede è solo indirettamente destinato alla soddisfazione delle esigenze familiari del debitore, rientrando nell’attività professionale da cui quest’ultimo ricava il reddito occorrente per il mantenimento della famiglia, non è consentita, ai sensi dell’articolo 170 del Codice civile, la sua soddisfazione sui beni costituiti in fondo patrimoniale”. “Pare – commenta Frigieri – che la Suprema Corte abbia distinto la nozione di bisogno indiretto della famiglia (non legittimante l’esecuzione sui beni del fondo) e di bisogno non restrittivo (legittimante, invece, l’esecuzione sui beni del fondo)”.
Ma il vero rischio, a dire dell’avvocato, è un altro. “Ovvero che in tutti i casi non è mai escluso il pignoramento, in quanto il bene vincolato nel fondo rimane intestato al coniuge o entrambi i coniugi, e saranno quindi loro a dover proporre opposizione sostenendo l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia e la conoscenza dell’estraneità in capo al creditore stesso”, conclude Frigieri.