Accesso limitato al mondo del lavoro: in Italia le donne che lavorano sono poco più di 9 milioni – considerando la fascia di età 20-64 anni, parliamo di un 53%, migliore solo del dato della Grecia – con il 31,3% delle donne occupate con lavori a tempo indeterminato, contro una media europea del 41,5%. In termini geografici la situazione è molto disomogenea: nel 2018 nel Mezzogiorno solo il 32,2% delle donne tra i 15 e i 64 anni lavorava contro il 59,7% nel Nord.
Carriere discontinue per maternità o cura di parenti anziani. In Italia, secondo le stime non ufficiali riportate dal Ministero della Sanità, sono 3 milioni le persone che si prendono cura di parenti non autosufficienti e, come in altri paesi, per il 65% sono donne tra i 45 e i 55 anni che spesso, almeno nel 60% dei casi, hanno dovuto abbandonare un lavoro per svolgere un ruolo di assistenza familiare. Part-time: il 32% delle occupate lavora a tempo parziale, contro un 8% degli uomini, per il 60% dei casi non per scelta.
Scarso accesso a posizioni apicali: nonostante le donne studino più degli uomini e con migliori risultati, le donne manager in Italia sono infatti solo il 27% dei dirigenti, contro una media europea del 34%. Il Career Prospects Index, che valuta autonomia nel lavoro, tipologie di contratto, possibilità di avanzamento di carriera e probabilità di essere licenziate in caso di ristrutturazione aziendale, assegna al nostro Paese un punteggio di 52 su 100, contro la media europea di 64.
Divario retributivo: nonostante negli ultimi anni si fosse nutrita la speranza che il divario retributivo tra uomini e donne si stesse lentamente risolvendo, tra il 2019 e il 2021 si è di nuovo acuito, portando la retribuzione media femminile, a parità di mansioni, inferiore di un quinto rispetto a quella maschile. Questo dato ci posiziona al 18° posto nella classifica dell’Europa a 24 per gender paygap.
Questo fattore non è ovviamente solo italiano. Ha di recente fatto clamore la notizia che Google (Mountain View) ha accettato di pagare 1,4 milioni di dollari in arretrati e interessi a 2.565 dipendenti donne nel settore dell’ingegneria software che venivano pagate meno dei colleghi uomini.
Disoccupazione: anche in virtù del fatto che spesso sono occupate in lavori precari, le donne sono più esposte all’inoccupazione. Basti pensare che nonostante il blocco dei licenziamenti a causa della pandemia, su 101 mila lavoratori che hanno perso il lavoro nel solo mese di dicembre 2020, ben 99mila sono donne.
Tutto quello che abbiamo visto finora si riflette in una contribuzione insufficiente che porta le donne, secondo l’Istat, a pensioni inferiori del 36% rispetto a quelle degli uomini. Il 44,5% delle donne, infatti, può contare su un reddito pensionistico inferiore o pari a 1.000 euro, contro il 27.4% degli uomini. E stiamo parlando di pensioni che ancora non riflettono le riforme pensionistiche e il cambio di sistema di calcolo che, secondo le stime, può portare a un abbassamento dell’assegno pensionistico del 40% nel caso di lavoratori dipendenti, ancora peggio per gli autonomi. Quindi la pensione da lavoro dipendente che oggi vale 100, quando le riforme saranno a pieno regime, varrà 60.
Cosa succederà quando quel 36% in meno si dovrà applicare a un assegno pensionistico più basso del 40% rispetto al vecchio calcolo retributivo? Senza considerare che 4 milioni di donne over 65 non hanno contribuzione perché hanno lavorato tutta la vita come casalinghe e quindi potranno disporre solo della pensione sociale o, nel caso sopravvivano a un marito, della pensione di reversibilità, pari al 60% dell’assegno pensionistico originale. Ma con le riforme previdenziali e il sistema di calcolo contributivo, si tratterà del 60% di una pensione ridotta del 40% rispetto al calcolo retributivo. Appare ancora più grave il fatto che ad oggi 4 milioni di donne over 65 non hanno una pensione, o hanno diritto solo a quella sociale, perché hanno lavorato tutta la vita come casalinghe. E sotto i 65 anni, ci sono ancora 3 milioni di donne nella stessa situazione, In Italia oggi gli uomini hanno un’aspettativa media di vita di 81 anni e le donne 85, ma già per metà secolo si prevede di arrivare rispettivamente a 85 e 90. Il rischio maggiore della nuova longevità è, quindi, sopravviver e ai propri risparmi che in molti casi servono a integrare il reddito da pensione. Vivere così a lungo, infatti, potrebbe significare che i risparmi accumulati, per chi ne dispone, non bastino a garantire il tenore di vita desiderato, tanto più che negli anni più estremi della longevità è prevedibile che aumentino le spese mediche e di assistenza.
Conforta sapere che, essendo la maggior parte della ricchezza italiana nelle mani degli over 65 anni, le donne – più longeve degli uomini – potrebbero nei casi migliori ritrovarsi ad ereditare cospicui patrimoni. Materia per i consulenti finanziari che dovranno imparare a relazionarsi anche con le consorti dei propri clienti per poter sviluppare un rapporto di fiducia con chi erediterà la ricchezza famigliare.
(Articolo tratto dal magazine We Wealth di marzo 2021)