Resta la perplessità, a fronte di un fabbisogno finanziario enorme, delle limitate risorse pubbliche allocate, facendo affidamento sull’effetto leva. Inoltre, la ricaduta per professionisti e imprese rischia di essere beffarda: vi è infatti il rischio di prendere i soldi a prestito per restituirli allo Stato in tasse. Oltre a consentire nuovo indebitamento rimborsabile in sei anni, si sarebbe potuto pensare di “spalmare” la tassazione 2019 su un periodo di analoga durata.
Ciò detto, analizzando de iure condito le misure, come noto gli strumenti individuati sono due e sono disponibili fino alla fine dell’anno 2020:
– il primo, che per brevità chiameremo “liquidità Sace” (art. 1 decreto cosiddetto liquidità), è del tutto originale e riguarda l’erogazione di nuova finanza finalizzata a investimenti, a coprire le esigenze del capitale circolante e del costo del lavoro, garantiti da Sace;
– il secondo, noto come “Fondo centrale di garanzia Pmi”, istituito nel lontano 1996 e incrementato per l’occasione (art. 13 Liquidità, che abroga e sostituisce l’art. 49 del Cura Italia), è un tradizionale strumento di accesso al credito per le micro, piccole e medie imprese, con finanziamenti concessi per tranche, a seconda dei casi, fino a massimi venticinque mila, massimi ottocento mila o di importi superiori, ma garantiti solo fino a cinque milioni, con gradi decrescenti di copertura statale per le banche.
Con entrambi gli strumenti, il finanziamento potrà essere richiesto con ammortamento (posticipabile fino a ventiquattro mesi, il cosiddetto pre-ammortamento) o senza ammortamento (finanza bullet) con scadenza finale massima di sei anni e per importi non superiori a:
- 25% del fatturato nel 2019 (in caso di mancanza di bilancio, la cui approvazione è stata posticipata fino al 30 giugno 2020, si potrà fornire una autodichiarazione);
- il doppio del costo del lavoro nel 2019 (incluse tutte le voci di conto economico relative al personale).
Con l’accesso al Fondo centrale di garanzia Pmi, è anche prevista la possibilità di ottenere finanziamenti pari agli investimenti previsti da un business plan nei 18 mesi (per le Pmi) e per 12 mesi (per le imprese non Pmi con meno di cinquecento dipendenti), sempre con garanzia massima pari a cinque milioni.
Il grande dubbio sull’applicazione dello strumento è se le società in cui hanno investito fondi di investimento chiuso di private equity abbiano accesso ai finanziamenti ex art. 13 del Decreto Liquidità. Come noto, ai fini della qualificazione come Pmi (come definiti dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 6 maggio 2003), si considerano imprese associate e collegate tutte le imprese cui partecipino per almeno il 25%, direttamente o indirettamente, Sgr che gestiscono fondi di private equity. La valutazione aggregata di fatturato, totale di bilancio e numero di dipendenti porterebbe ad escludere, generalmente, la possibilità per le società nel portafoglio dei fondi di essere considerate Pmi. Con specifico riferimento alla possibilità di fare ricorso a finanziamenti garantiti dal Fondo centrale di garanzia Pmi, Abi conferma tuttavia che le banche interpreteranno il criterio dimensionale di “imprese con numero di dipendenti non superiore a 499” come esclusivamente riferito alla singola entità giuridica e sulla base del bilancio civilistico 2019, disapplicando i criteri di calcolo per la definizione di Pmi e l’eventuale bilancio consolidato. Questa è una ottima notizia per il settore del private equity, strumento vitale per agevolare la modernizzazione, l’internazionalizzazione ed il passaggio generazionale delle imprese familiari italiane.