- la disciplina delle modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo (laddove, in assenza di tali pattuizioni, non vi sarebbe alcun obbligo giuridico dei conviventi alla contribuzione reciproca, ma si profilerebbero soltanto dei doveri morali la cui spontanea esecuzione non può essere oggetto di richiesta di restituzione da parte di chi abbia elargito la prestazione);
- l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni, di cui alla sezione III del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile (mentre, in mancanza di una clausola siffatta, gli acquisti dei conviventi sarebbero considerati autonomi ovvero soggetti al regime di comunione ordinaria in caso di acquisti effettuati in comune). Il regime patrimoniale scelto nel contratto di convivenza – che è efficace già dal momento della stipula del contratto stesso e termina con la cessazione, per qualsiasi causa, di quest’ultimo – può peraltro essere modificato dai partner in qualunque momento nel corso della convivenza.
Al contenuto patrimoniale “tipico” del contratto di convivenza, come sopra descritto, può affiancarsi anche uno “atipico”, poiché si ritiene che l’elencazione contenuta nell’art. 1 comma 53 della Legge Cirinnà non abbia natura tassativa. Conseguentemente, nel contratto di convivenza può trovare spazio la regolamentazione di ulteriori aspetti patrimoniali caratterizzanti la vita in comune dei conviventi, come per esempio quelli riguardanti la titolarità o il godimento dell’immobile adibito a loro residenza ovvero quelli inerenti il mantenimento dei figli o, ancora, relativi alle ipotesi di malattia o incapacità di uno dei due partner.
Parimenti, il contratto di convivenza potrebbe contenere accordi relativi alla definizione degli interessi patrimoniali dei conviventi in caso di crisi della relazione affettiva e di eventuale cessazione della stessa. A titolo esemplificativo, potrebbero infatti essere pattuite clausole che stabiliscano la restituzione di talune prestazioni rese da un partner a favore dell’altro nel corso della convivenza, ovvero che impongano la corresponsione di somme a titolo di mantenimento da parte del convivente economicamente più forte in favore di quello più debole, o ancora che amplino il contenuto dell’obbligo alimentare sancito per legge dall’art. 1 comma 65 della legge in commento, o che regolamentino la situazione abitativa.
Quanto alla forma, il contratto di convivenza, le sue modifiche e la sua risoluzione devono essere eseguiti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali devono attestarne la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Ai fini dell’opponibilità ai terzi, il professionista che ha ricevuto l’atto in forma pubblica o che ne ha autenticato la sottoscrizione deve provvedere entro i successivi 10 giorni a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.
Il contratto di convivenza, di per sé, non può inoltre essere sottoposto a termine o condizione (che, ove inseriti, si hanno per non apposti), mentre invece è considerata ammissibile l’apposizione di termini o condizioni alle singole clausole contrattuali dello stesso.
I conviventi che abbiano stipulato un contratto di convivenza sono infine liberi di sciogliere il contratto in qualunque momento, per accordo reciproco ovvero per decisione unilaterale di uno soltanto dei partner.