La risoluzione conclude che il bitcoin sia assimilabile a una valuta estera, o più precisamente che “bitcoin è una tipologia di moneta “virtuale”, o meglio “criptovaluta”, utilizzata come “moneta” alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa da una Autorità monetaria.
Per utilizzare i bitcoin, gli utenti devono entrarne in possesso: – acquistandoli da altri soggetti in cambio di valuta legale; – accettandoli come corrispettivo per la vendita di beni o servizi. L’Agenzia fa riferimento alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 22 ottobre 2015, causa C-264/14… secondo cui “l’attività di intermediazione di valute tradizionali con bitcoin, svolta in modo professionale ed abituale, costituisce una attività rilevante oltre agli effetti dell’Iva anche dell’Ires e dell’Irap”.
Ma questa risoluzione ha delle implicazioni sul piano fiscale anche per il detentore persona fisica di bitcoin. “Se infatti bitcoin è assibilabile a una valuta estera – dice Luca Valdameri, partner dello studio legale e tributario Pirola Pennuto Zei & Associati – la tassazione si applica sulla base di quanto dispone l’articolo 67, comma 1-ter, del Tuir, in tema di plusvalenze da redditi diversi. In particolare, le valute estere concorrono a formare il reddito se, nel periodo di imposta in cui esse sono realizzate, la giacenza dei depositi e conti correnti complessivamente intrattenuti dal contribuente presso tutti gli intermediari, calcolata in base al cambio vigente all’inizio del periodo di riferimento, sia superiore a 51.645,69 euro per almeno 7 giorni lavorativi continui”.
Nel momento in cui bitcoin viene convertito in euro, a patto che sussista almeno una delle due condizioni segnalate, sulla plusvalenza si applica l’imposta sul capital gain del 26%”. Tutto qua? No, le criticità ci sono. “Almeno due – spiega Valdameri – la prima è che gli emittenti di questa valuta non sono le banche centrali quindi il sistema non è regolamentato e la seconda che non esiste, al contrario delle altre valute, un corrispettivo fisico del bitcoin, che resta una formula matematica immateriale. Dunque, è molto difficile sapere dove fiscalmente “risiede” lo strumento. E il dato non è irrilevante: se possiedo dollari in Svizzera li devo dichiarare nel modello Rw, se li possiedo in Italia, no. Dove possiedo i miei bitcoin? Nella chiavetta Usb che ho al collo o nel Paese dove ha sede l’Exchange? Direi che per quanto riguarda la dichiarazione la scelta più condivisibile dovrebbe essere quella di collegare la localizzazione alla sede dell’exchange. Quando invece si calcola la tassazione, fa fede la residenza fiscale del soggetto che riceve il bonifico”.
L’Agenzia delle Entrate si è espressa su bitcoin ma oggi, come sappiamo, il mondo cripto è cresciuto a dismisura ed è popolato da asset variegati, non necessariamente assimilabili a valute come bitcoin, che è effettivamente decentralizzato e totalmente distribuito. Ci sono criptoasset evidentemente collegati a progetti industriali (come sono state le Ico) e più vicine a stock che a monete. “A prescindere da queste distinzioni – dice Valdameri – Io riferirei il parere dell’Agenzia a tutto quello che è cripto asset anche se configurabile come stock. Il sistema fiscale italiano è guidato dal parere dell’Agenzia, e tutto sommato la tassazione imposta su bitcoin non appare discriminatoria perché in linea con il livello di tassazione delle rendite finanziarie. In molti altri paesi, come Usa e Olanda, le plusvalenze da cripto finisco nella tassazione marginale. Poi, certamente, c’è il caso svizzero dove non è prevista tassazione sul capital gain. Ma tutto sommato l’inquadramento fiscale italiano del bitcoin appare equo”.