Secondo la Banca d’Italia, con il termine cryptoasset si indicano attività di natura digitale, il cui trasferimento è basato sull’uso della crittografia facilitato dalla distributed ledger technology (la più nota tra queste tecnologie è la blockchain). Per fare qualche esempio, rientrano fra i cryptoasset: le criptovalute o “exchange token”, o “coin”, così come gli strumenti emessi tramite Initial coin offering (“Ico”). In ambito nazionale, invece, le valute virtuali vengono definite, ai fini della normativa antiriciclaggio di matrice comunitaria, quali una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e può essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente.
Alla luce dell’evidente carattere “ibrido” dei cryptoasset, sorge quindi spontaneo domandarsi se dalla loro detenzione, al di fuori dell’attività di impresa, possano derivare redditi imponibili e, di conseguenza, se l’investimento in tali strumenti, ove di importo superiore a 15mila euro, comporti l’obbligo di compilazione del quadro Rw. Sul punto, la sostanziale equiparazione tra le criptovalute e le valute legali estere, riscontrabile nella risposta ad interpello n. 956-39/2018 della Direzione regionale Lombardia, pare aver risolto in senso affermativo tale dubbio. Il semplice utilizzo di moneta virtuale, quindi, comporterebbe, al pari della valuta avente corso legale, l’assoggettabilità a tassazione italiana, in quanto attività potenzialmente destinata a produrre reddito.
Ulteriore conferma di tale orientamento si riscontra anche in giurisprudenza, nella recente sentenza n. 1077/2020 del Tar del Lazio. E ancora, leggendo le istruzioni del Modello redditi persone fisiche 2020, l’incertezza pare essere definitivamente superata: è, infatti, espressamente prevista l’indicazione delle criptovalute nel quadro Rw con il codice “14” (“altre attività estere di natura finanziaria e valute virtuali”), mentre è stato chiarito che, nel caso di utilizzo di tale codice per dichiarare valute virtuali, non sarà necessaria l’indicazione dello Stato estero di riferimento.
Nessun chiarimento, invece, circa l’esonero in caso di «wallet» con valori inferiori a 15mila euro nel corso dell’anno. In ogni caso, le valute virtuali non sono soggette all’imposta sul valore delle attività finanziarie estere (Ivafe) perché i borsellini elettronici (wallet) in cui sono custodite non sono, sul piano giuridico, né depositi, né conti correnti bancari, né rappresentano un credito del titolare della valuta virtuale nei confronti del fornitore dei servizi funzionali alla conservazione delle valute stesse (il cosiddetto wallet provider).
Ci troviamo, quindi, di fronte a una palese incoerenza legislativa: dal punto di vista regolamentare, i cryptoasset, fra cui le criptovalute, non hanno corso legale e, di conseguenza, non possono essere considerate valute. Dal punto di vista fiscale, invece, a esse è esteso il medesimo trattamento riservato alle valute tradizionali.
Sarebbe, quindi, quantomai auspicabile che la normativa fiscale si coordinasse in modo tempestivo con la regolamentazione civilistica per tenere conto dell’innovazione finanziaria nel comparto delle valute virtuali.