La seconda variabile da considerare, per capire come e quanto versare nei fondi pensione, è il tipo di contratto del lavoratore, se dipendente a tempo indeterminato o autonomo libero professionista. “Il tema è che il metodo di calcolo che abbiamo oggi, il contributivo, è sano: non è la regola che rende l’assegno pensionistico inadeguato ma il fatto che nel frattempo il mondo del lavoro è cambiato. Sempre meno di frequente si lavora per 40 anni nello stesso luogo, con uno stipendio crescente e questo aumenta il rischio di non poter conservare il tenore di vita adeguato”.
E veniamo alla domanda chiave: ovvero qual è il gap da coprire per aver un incremento del trattamento pensionistico che questo tenore consenta di conservarlo?
Secondo la Ragioneria dello Stato il tasso di sostituzione netto della pensione sarà pari all’80% dell’ultima retribuzione. “Detta così si potrebbe pensare che il fondo pensione non sia necessario – dice Bugli – ma crediamo si tratti di un’ipotesi basata su previsioni ottimistiche su PIL, andamento delle retribuzione e produttività del lavoro. Secondo la nostra analisi il tasso di sostituzione netto potrebbe essere inferiore, ma non è solo questo. Intanto bisogna capire quale sia il reddito da prendere a riferimento per il calcolo dell’80% (se guadagno poco, avrò nel migliore dei casi l’80% di poco o pochissimo), poi bisogna vedere se la carriera sarà costante e il reddito lineare e crescente. Insomma, attenzione a leggere bene i dati”.
La domanda chiave è: quanta parte del reddito dovrà essere accantonata per ottenere una prestazione finale lorda pari almeno al 10 dell’ultimo reddito, per eliminare il gap pensionistico? “Va precisato – dice Bugli – che l’ottenimento di questa prestazione finale dipende da alcune variabili: dalla durata del periodo contributivo che abbiamo; dalla dinamica della retribuzione reale individuale; dai tassi di rendimento del fondo pensione al netto delle spese e degli oneri di gestione; dalle aliquote di contribuzione”. In ogni caso, in base alle ipotesi di Itinerari Previdenziali, basate su valori medi di tutte le variabili, si evince che un lavoratore a cui mancano 20 anni al compimento dei 65, per raggiungere il 10% di integrazione pensionistica, dovrà versare una contribuzione tra il 7,5 e il 6,8 del proprio reddito, mentre un giovane che si iscrive all’inizio della carriera verserà tra il 3,7 e il 3%, cioè meno della metà. Per i giovani, quindi, secondo i calcoli di Itinerari Previdenziali, in un contesto economico e di dinamica di reddito favorevole (ma ragionevole) e di rendimenti tra il 2 il 3 % del fondo, per redditi da 15.000 a 25.000 euro l’anno, per avere un 10% di pensione in più è sufficiente un versamento rispettivamente di 38,5 e di 64 euro al mese.
“Un lavoratore al primo impiego che entra nel mercato del lavoro all’età media attuale di 24 anni e andrà in pensione a 67 anni di età con 35 o 40 anni di contribuzione, se si iscrive subito a un fondo pensione, potrà ottenere una prestazione complementare pari persino al 20% dell’ultimo reddito versando per 40 o 35 anni, tra il 7,5% e il 7,8% – precisa Bugli – Poiché si sente troppo spesso affermare che i giovani non hanno i soldi per la complementare, ma attenzione (!): per avere il 20% di pensione in più basta versare il Tfr e l’1% a carico del datore di lavoro, senza minimamente intaccare la busta paga del lavoratore. Più difficile ovviamente per un lavoratore autonomo o libero professionista che non ha Tfr e contributo datoriale. Tuttavia occorre considerare l’agevolazione fiscale sui versamenti che per redditi fino a 25.000 euro consente una deduzione al 25%, riducendo così l’aliquota versamento dal 7,8% al 5,85%”.
“Sono cifre alla portata di buona parte dei lavoratori – dice Bugli – bisogna quindi diffondere il verbo e fare education sul punto”. Si dovrebbero poi incentivare tutte le modalità che aiutino ad alimentare il fondo pensione in modo meno impattante possibile per il bilancio domestico (il TFR, per cominciare). L’eliminazione di un fondo che incentivasse i datori di lavoro di piccole e medie dimensioni a destinare il TFR dei dipendenti al fondo, limita ancora tanto l’utilizzo dello strumento. Non basta, bisogna stimolare l’adesione ai fondi, trattandoli non solo come una integrazione futura della pensione, ma come strumento di risparmio che ci aiuta nelle spese e nelle necessità della vita di tutti i giorni (acquisto casa, spese sanitarie, …) a condizioni di favore fiscale; ciò attraverso una complessiva operazione di consulenza e gestione del patrimonio.
“Ci sono tre momenti di vita del fondo, quando verso, quando investo e quando rilevo la prestazione – spiega l’avvocato – in fase di versamento ho attualmente il beneficio della deducibilità fino ai vecchi 10 milioni di lire. In fase di accumulo ho un beneficio in termini di tassazione sui rendimenti, che è passata dall’11 al 20%, ma è ancora inferiore al 26% dell’aliquota sui rendimenti finanziari. Infine la tassazione della prestazione è un’imposta alla fonte che va dal 15% al 9% in base agli anni di iscrizione al fondo. La proposta parrebbe quella di far sparire questo tipo di vantaggio, tassando la prestazione ordinariamente con le aliquote marginali Irpef. L’impatto sarebbe fortissimo e l’effetto sarebbe di allontanare ancora di più dai fondi pensione: auspichiamo che alla fine la proposta non passi. Non è solo questione di merito (se la riforma è buona o meno), ma anche di metodo. Le cicliche notizie di modifica della fiscalità, non fanno bene allo sviluppo dei fondi pensione; dando l’idea che le regole cambino troppo spesso e non ci si possa fidare della promessa che – tempo per tempo – il Legislatore ci fa per incentivarci all’utilizzo di questo strumento utile per ciascuno di noi, ma soprattutto per l’intero sistema di welfare; quindi, per la collettività”.