Un risparmio di qualità che cresce, con dinamiche differenziate a seconda della tipologia di investitori istituzionali, una previdenza complementare che occupa il 15° posto tra i paesi Ocse, e nel prossimo futuro, più investimenti sostenibili e nuova linfa ai Fia (i fondi di investimenti alternativi come private equity, venture capital, private debt…). Alberto Brambilla, presidente Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali illustra a We Wealth le luci e le ombre che emergono dal sesto Report annuale “Investitori istituzionali italiani: iscritti, risorse e gestori per l’anno 2018”: dal ruolo ancora troppo marginale degli investitori istituzionali nell’investimento in economia reale al crescente impegno nelle politiche di investimento sostenibile Sri.
Investimento in economia reale, si può fare di più
“Il patrimonio degli investitori istituzionali ha raggiunto quota 861,6 miliardi di euro, pari al 49% del Pil nazionale, che include i 167 miliardi del patrimonio dei fondi pensione (questi ultimi cresciuti costantemente dai 57 miliardi nel 2007). Il rapporto mette in luce due aspetti: l’esiguità degli investimenti dei fondi di natura contrattuale, in gran parte alimentati dal Tfr che è “circolante interno” alle aziende ed è quindi la principale forma di finanziamento dell’economia reale, e il ruolo delle fondazioni di origine bancaria, maggiori investitori in economia reale domestica con il 48,60% dei loro patrimoni (seguiti dalle casse privatizzate dei liberi professionisti con il 16,31%). Nel corso degli anni il patrimonio degli investitori istituzionali è cresciuto costantemente rispetto ai 404,1 miliardi di euro del 2007; in 12 anni quindi, con quasi la metà del periodo passata nella peggiore crisi finanziaria degli ultimi 60 anni, è più che raddoppiato. Solo le fondazioni di origine bancaria hanno visto una riduzione del patrimonio a seguito del calo di valore delle azioni della banca conferitaria, ma le erogazioni sul territorio non sono comunque diminuite”, spiega Brambilla.
Che cosa è necessario per un ruolo più attivo nell’economia reale da parte di questi investitori?
“Innanzitutto manca una politica industriale nazionale, un sistema di incentivi efficace per individuare le imprese strategiche nei diversi settori: acqua, energia, infrastrutture… Gli operatori di venture capital e i fondi per lo sviluppo delle imprese (private equity in primis) sono pochi e di piccole dimensioni. Ma soprattutto mancano i veicoli di investimento per intervenire. Ad esempio i Pir (Piani individuali di risparmio) che hanno riscosso un grande successo nella fase iniziale, per come sono concepiti hanno prodotto pochi vantaggi per l’economia reale nazionale (intesa nel Report come azioni italiane, obbligazioni corporate, titoli italiani negli Oicr, Fia per la componente investita in Italia) e semmai maggiori benefici per gli azionisti. Gli Eltif (European Long Term Investments Funds) non sono ancora partiti. Ma oltre agli strumenti e all’azione del governo servono anche dei professionisti del risparmio in grado di selezionare le eccellenze economiche italiane (agroalimentare, meccatronica…) per investire nell’equity e farne aumentare la produttività e quindi la competitività, punto debole del nostro sistema imprese che per il 95% ha meno di 49 dipendenti.
L’economia reale non cresce certo con le strategie “spezzatino” – ad esempio, comprare un’azienda per smembrarla e venderne i pezzi (immobili, beni…) – che si sono a volte viste in passato. E soprattutto non cresce senza un progetto di sviluppo a lungo termine che passi anche dal rilancio della produttività del Paese. Basterebbero investimenti per pochi punti percentuali in più del patrimonio di casse privatizzate e fondi pensioni (che oggi investono solo tra il 3 e il 16% del loro patrimonio) per inietta- re miliardi di euro nel sistema imprenditoriale italiano. Oggi i mandati di gestione per gli investimenti dei fondi pensione sono per lo più obbligazionari ma le dichiarazioni rese dagli operatori sulle intenzioni di investire nel prossimo futuro mostrano che il 68% intende investire in Fia, e questo potrebbe essere un elemento positivo in questo scenario”, sottolinea ancora Brambilla. “Investimenti cui va però appunto affiancato un rilancio del sistema produttivo, dell’occupazione e della politica industria- le italiana e che sarebbe peraltro sempre opportuno affidare a professionisti del settore e figure opportunamente specializzate in quest’ambito”.
Più investimenti sostenibili e non solo per questione di immagine
Grande attenzione agli investimenti sostenibili esaminati dal rapporto per la prima volta. Forse è presto per parlare di un “capitalismo sociale” ma il rapporto rileva segnali importanti: quasi l’80% di tutti i rispondenti (che abbiano o meno adottato politiche Sri) intende includere o incrementare strategie sostenibili nella politica di investimento. Per avere un’idea delle dimensioni di cui stiamo parlando i rispondenti sono 55 e ben 31 hanno un patrimonio superiore al miliardo di euro.
Le aspettative? “Più dell’80% lo fa per “fornire un contributo allo sviluppo sostenibile (ambientale e sociale)” e oltre il 50% anche per “gestire in maniera più efficace i rischi finanziari”. Solo il 21% per “migliorare la reputazione dell’ente” e il 18% per “ottenere rendimenti finanziari migliori”, che conferma la tesi secondo la quale la redditività di questi investimenti è da valutare nel lungo periodo. In generale i rendimenti nel 2018, in effetti, sono stati negativi, e non poteva essere diversamente visto l’andamento negativo dei mercati finanziari nel corso del 2018, ma riportando il periodo di osservazione alla corretta ottica del medio-lungo termine i rendimenti tornano a battere quelli obiettivi sugli scenari a 5 e 10 anni. Vale la pena di sotto- lineare che le attuali valutazioni sulla gestione del management limitate al breve termine (1-3 anni) sono uno degli ostacoli allo sviluppo del settore, non solo per quanto riguarda l’area Sri” conclude Brambilla.