Infatti, molte aziende multinazionali hanno già cambiato l’organizzazione del lavoro in modo permanente, scollegando spesso il lavoratore da una sede lavorativa fisica e rendendo “abituale” il tele-lavoro, situazione che potrebbe diventare la “nuova normalità” post-pandemia.
Ad oggi, l’Italia non ha ancora formalizzato una propria posizione ufficiale, nonostante l’Ocse, all’interno delle raccomandazioni pubblicate ormai il 3 aprile 2020 (“Oecd secretariat analysis of tax treaties and the impact of the covid-19 crisis”), abbia fornito delle linee guida chiarendo, in sintesi, che i periodi di soggiorno forzato in funzione delle restrizioni e/o di comprovate necessità sanitarie, lavorative, personali o familiari originati dall’emergenza pandemica non dovrebbero essere considerati quali normali comportamenti del contribuente né rappresentare, seppur in via straordinaria, elementi significativi ai fini dell’individuazione della residenza fiscale di un contribuente trasferitosi temporaneamente in un altro Paese.
Dicembre è il mese in cui normalmente i datori di lavoro italiani, in qualità di sostituti di imposta, hanno la possibilità di effettuare i conguagli nelle buste paga dei lavoratori dipendenti e possono, in questa sede, recepire nuove informazioni o eventuali rettifiche nel trattamento fiscale dei dipendenti dovute a situazioni di cui non si è tenuto conto durante l’anno (es. applicazione delle retribuzioni convenzionali).
Pertanto diventa urgente che il governo o le autorità fiscali forniscano chiarimenti entro il prossimo mese in merito al trattamento fiscale delle principali situazioni di incertezza in cui si trovano in generale i lavoratori che a causa delle richiamate restrizioni alla mobilità internazionale hanno soggiornato in via del tutto eccezionale in Italia (o all’estero) più di 183 giorni nel 2020.
In particolare, i casi concretamente più complessi da affrontare con riguardo alle norme fiscali interne che a quelle convenzionali Ocse riguardano:
- Lavoratori rientrati nel proprio Paese di origine, che non sono ancora riusciti a riprendere l’attività lavorativa nella sede abituale di lavoro localizzata in un altro Stato;
- Lavoratori rimasti bloccati contro la loro volontà nello Stato della sede di lavoro diverso da quello di origine;
- Lavoratori trasferitisi in altri Stati (es. italiani temporaneamente trasferiti in Svizzera) al fine di sfuggire alla pandemia, dove svolgono la propria attività lavorativa in smart working;
- Lavoratori cosiddetti “frontalieri” che non hanno potuto rientrare giornalmente o settimanalmente al proprio domicilio o non hanno potuto recarsi al lavoro;
- Lavoratori fiscalmente residenti in Italia che prestano in via continuativa il proprio lavoro all’estero e che, ordinariamente, determinano il proprio reddito di lavoro dipendente avvalendosi delle cosiddette “retribuzioni convenzionali” (articolo 51, comma 8 bis del Tuir);
- Lavoratori che rivestono ruoli apicali nell’organigramma di società estere e che potrebbero creare questioni di difficile soluzione con l’attuale framework normativo sia in materia di “Place of management” che di “Permanent establishment”;
- Ultimo ma non per importanza, lavoratori che, rientrando in Italia a causa della pandemia, potrebbero vedersi preclusa la possibilità di beneficiare degli speciali regimi fiscali di attrazione di lavoratori e altri individui qualificati previsti dall’articolo 16, D.Lgs. 147/2015 (regime dei “lavoratori impatriati”), dall’articolo 24-bis, Tuir (regime dei “neo-residenti”) ovvero dall’articolo 24-ter, Tuir (regime dei “pensionati esteri neo-residenti”).
In linea generale, l’esigenza di un chiaro intervento da parte del legislatore italiano sul tema della residenza fiscale emerge con forza poiché tanto la norma interna (disciplinata dall’art. 2, comma 2, del Testo unico delle imposte sui redditi) quanto le norme convenzionali (art. 4 Modello Oecd) prevedono ordinariamente la potestà impositiva di uno Stato proprio alla luce dell’individuazione della residenza fiscale, basandosi essenzialmente (i) sul luogo di svolgimento “fisico” dell’attività lavorativa e (ii) sulla durata della permanenza del lavoratore nel territorio dello Stato, non prevedendo apparentemente alcuna deroga espressa in casi di “forza maggiore”.
Come anticipato, l’Italia, a differenza di altri Paesi tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Australia ed Irlanda, non ha ancora recepito ufficialmente le raccomandazioni dell’Ocse, ma si rileva un’interessante iniziativa in questo senso promossa dal gruppo di studio Working Party on Tax & Legal Matters (Wpotlm), il quale ha di recente sottoposto all’attenzione del ministero dell’Economia e delle Finanze un’interrogazione parlamentare che ha inteso sollecitare una celere risposta su tutte le tematiche sopra esposte.
Non resta che attendere l’esito di tale iniziativa per valutare i reali impatti fiscali (ed in verità anche in materia di sicurezza sociale) che a causa della pandemia rischiano di ripercuotersi sulla mobilità internazionale e sulla nuova prassi dello smart working nell’anno fiscale 2020 e come ciò cambierà il modo di pensare al lavoro, non più un luogo fisico ma un web network senza più una chiara territorialità “fisica”.