Il bisogno (di credito) aguzza l’ingegno. E così le aziende italiane, messe a dura prova dal coronavirus, stanno esplorando strumenti di finanza alternativa, tra cui i mini-bond: titoli di debito a medio-lungo termine emessi da società non quotate, sottoscritti da investitori istituzionali privati (in private placement) o dal mercato.
Gli operatori restano ottimisti, nonostante il coronavirus. “Le aziende che stavano emettendo mini-bond hanno concluso le operazioni e chi invece aveva progetti di medio-lungo periodo ha momentaneamente rinviato le emissioni. Altre hanno chiesto alle banche i prestiti garantiti, ma vista la lentezza nell’erogazione e la necessità di liquidità immediata, hanno optato per i mini-bond”, dice Giudici. Lo confermano Banca Finint e Frigiolini & Partners Merchant, i due arranger del maggior numero di emissioni di mini-bond nel 2019 (fonte: Politecnico di Milano).
“Diverse aziende hanno emesso mini-bond nono- stante l’ emergenza. Come Banca Finint abbiamo concluso un paio di operazioni per un importo di 20 milioni tra febbraio e aprile di quest’anno e a fine maggio ne abbiamo chiusa una terza”, racconta Simone Brugnera, responsabile area mini-bond di Banca Finint. Gli fa eco Leonardo Frigiolini, fondatore e ad di Frigiolini & Partners Merchant: “Nel primo trimestre 2020 abbiamo raddoppiato il nostro fatturato anno su anno”. Anche Anna Marucci, responsabile listing dei mercati obbligazionari di Borsa Italiana, conferma una pipeline interessante.
I mini-bond permettono alle aziende di diversificare le fonti finanziarie. Frigiolini lo spiega con una metafora: “È meglio avere due pozzi cui attingere (banca e mercato) anziché uno soltanto. In questo modo, l’azienda non ha un rapporto di sudditanza con la banca, ma è libera di decidere quale forma di finanziamento adottare”. Inoltre, i mini-bond, permettono di allungare la duration del debito rispetto alle banche, avendo una scadenza media attorno a cinque anni, fa notare Giudici. Al contempo sono meno invasivi dell’equity, perché il finanziatore non diventa socio dell’azienda. Un altro vantaggio dei mini-bond è la personalizzazione. “È più flessibile del finanziamento bancario, perché costruito su misura dell’impresa o del progetto finanziato. La personalizzazione costa di più, come un abito sartoriale”, precisa Anna Gervasoni, direttrice generale di Aifi.
I costi dipendono da: assistenza dello studio legale, arranger dell’operazione, certificazione del bilancio, eventuali rating e quotazione in Borsa. “I costi dei consulenti variano a seconda della dimensione e della tipologia di operazione. Il costo principale è associato alla cedola”, spiega Brugnera. I primi mini-bond di 7-8 anni fa erano molto costosi, con tassi attorno al 7,5%, ricorda Frigiolini. Ora nella maggior parte dei casi sono compresi tra il 3,5% e il 6% (fonte: Politecnico di Milano). Costa meno aderire a pluribond o basket bond, dove si crea una sorta di “immunità di gregge finanziaria”, per dirla con Frigiolini, per cui i costi si spalmano su più aziende.
I mini-bond comportano dopo l’emissione anche dei costi per produrre bilanci certificati, eventuali rating e comunicarli agli investitori. “Se da un lato questo presuppone un impegno aggiuntivo da parte dell’azienda, nel lungo periodo porta a una migliore capacità di attrarre talenti e affrontare le sfide necessarie allo sviluppo”, sottolinea Marucci.
Inoltre, il mini-bond “consente un sostanziale miglioramento dell’immagine aziendale, con conseguenze positive in termini di opportunità commerciali e finanziarie, oltre a rappresentare un ottimo strumento per managerializzare la società e dotarla di metodi di pianificazione economico-finanziaria evoluti”, spiega Brugnera. In quest’ottica, costi e adempimenti aggiuntivi posso- no essere considerati investimenti per conoscere il mercato, in vista di operazioni più complesse, come il private equity o la quotazione in Borsa. In questo senso, “il mini-bond costituisce una forma leggera di private equity, che non mette in discussione l’assetto proprietario dell’azienda”, evidenzia Giudici, oltre che un’occasione di “apprendimento culturale per l’emittente”, conclude Frigiolini.