Nel trust revocabile, com’è noto, il disponente (o settlor) si riserva, attraverso apposite clausole inserite nell’atto costitutivo, la facoltà di revocare in ogni momento l’attribuzione dei beni al trust e l’affidamento degli stessi in gestione al trustee e di rientrare così in possesso del patrimonio di cui si era temporaneamente spogliato.
Secondo l’amministrazione finanziaria, infatti, affinché il trust possa essere considerato un autonomo soggetto passivo delle imposte sui redditi è necessario che il trustee disponga in concreto del potere di gestire i beni vincolati nel trust, nell’interesse del beneficiario e in autonomia dal settlor. Ebbene, questa condizione essenziale viene a mancare allorché il settlor possa in ogni momento rientrare in possesso dei beni in trust e, in forza di tale facoltà, sia sostanzialmente in grado di influenzarne l’amministrazione.
Il trust revocabile è considerato dal fisco italiano un semplice mandato ad amministrare, dunque non è riconosciuto ai fini reddituali come autonomo soggetto passivo d’imposta. Pertanto, i redditi del trust sono tassati ai fini delle imposte dirette in capo al settlor, secondo i principi generali previsti per ciascuna delle categorie reddituali di appartenenza.
Poste tali premesse, da tempo acquisite, nell’istanza di interpello oggetto della risposta n. 111/E del 21 aprile 2020, il trustee di un trust revocabile domanda all’agenzia se siano valide (in capo al settlor) le opzioni per i regimi di risparmio amministrato (in cui l’intermediario è delegato a calcolare e ad applicare, per ogni operazione finanziaria realizzata, le imposte dovute) e risparmio gestito (in cui l’intermediario applica l’imposizione sul risultato complessivo di gestione maturato nel periodo sul dossier titoli) esercitate per conto del trust. Inoltre, chiede conferma in merito alla possibilità di attribuire al settlor i crediti di imposta per i redditi prodotti all’estero e le ritenute applicate nei confronti del trust (o del trustee per conto del trust) in relazione ai redditi realizzati nell’anno in cui era stata esercitata l’opzione per i regimi di risparmio amministrato/gestito ma che non rientravano nell’ambito applicativo di detti regimi (nonché in relazione ai redditi rientranti nell’ambito dei predetti regimi nel caso in cui l’agenzia avesse affermato l’inefficacia dell’opzione esercitata dal trustee).
Nella risposta, l’amministrazione afferma che le opzioni che il trustee abbia eventualmente esercitato per conto del trust, in relazione al regime fiscale da applicare alle rendite finanziarie, scegliendo tra regime della dichiarazione, del risparmio amministrato ovvero del risparmio gestito, si considerano esercitate “per interposta persona” e dunque si riflettono nella sfera giuridica dell’interponente, ossia il settlor, senza che a tal fine sia necessaria una sua accettazione o manifestazione d’assenso. In conseguenza di ciò, i trustee di trust revocabili dovrebbero poter comunicare all’intermediario finanziario presso cui sia stata esercitata l’opzione l’identità dell’effettivo beneficiario del rapporto, dimodoché l’intermediario possa correttamente adempiere ai propri obblighi di sostituto d’imposta avendo riguardo alle caratteristiche proprie del settlor.
Al di là del caso particolare del trust revocabile affrontato dall’agenzia nella risposta a interpello in commento, è peraltro immaginabile che il principio espresso dall’agenzia possa assumere una portata più ampia e trovare applicazione anche per altri casi di interposizione, ad esempio nel caso in cui la percezione dei redditi avvenga mediante società fiduciarie, che fungono da soggetto interposto tra il fiduciante, interponente, e la fonte del reddito. Sembra dunque essere avallata per la prima volta anche dall’amministrazione finanziaria la prassi già seguita dagli operatori del settore, che vede le società fiduciarie effettuare le opzioni per i regimi amministrato/gestito per conto del cliente presso altri intermediari, cui vengono di conseguenza trasferiti gli obblighi di sostituzione d’imposta. La “piena trasparenza” del soggetto interposto ai fini delle opzioni in parola, riconosciuta dall’agenzia delle Entrate, consente tra l’altro alle fiduciarie di evitare l’oneroso versamento in acconto dell’imposta sostitutiva, previsto in capo agli intermediari incaricati dell’amministrazione dei titoli.
In merito alla seconda questione posta dall’istante, l’agenzia ricorda che, per previsione normativa, i redditi di capitale conseguiti fuori dall’ambito dei regimi di risparmio amministrato/gestito vanno indicati nella dichiarazione annuale del disponente e assoggettati a imposta sostitutiva (26%); tali proventi, non concorrendo alla base imponibile Irpef del settlor, non danno luogo a un credito di imposta estero. Secondo l’agenzia, in tal caso, non è nemmeno possibile applicare il regime del cosiddetto “netto frontiera”, garantito al contrario quando la percezione dei dividendi avviene tramite un intermediario residente, ma va indicato in dichiarazione l’importo dei redditi al lordo delle eventuali ritenute operate all’estero a titolo definitivo. È evidente che il perdurare di tale interpretazione da parte dell’amministrazione finanziaria crea una discriminazione ingiustificata, non fondata su alcuna differenza sostanziale, tra i contribuenti residenti in Italia che riscuotono i redditi di capitale esteri per il tramite di intermediari residenti e quelli che non se ne avvalgono.
L’ammontare del reddito imponibile in capo all’investitore residente derivante da una certa tipologia di investimento (come il possesso di titoli esteri), espressione della sua capacità contributiva, non dovrebbe mutare, infatti, a seconda del metodo di riscossione dei proventi: l’applicazione dell’aliquota del 26% sull’importo lordo indicato in dichiarazione (per disposizione di legge obbligatoria e non per scelta del contribuente) determina un trattamento estremamente penalizzante per l’investitore che potrebbe essere evitato consentendo, per ridurre l’impatto della doppia tassazione economica che viene a generarsi, la tassazione sul “netto frontiera” anche in sede di dichiarazione dei redditi. Peraltro, la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha già chiarito che non è compatibile con il diritto della Ue la normativa di uno Stato membro in base alla quale i contribuenti ivi residenti sono soggetti a un regime fiscale più oneroso, sugli interessi o dividendi provenienti da collocamenti o da investimenti effettuati in un altro Stato membro, qualora non abbiano scelto di riscuotere tali redditi attraverso un intermediario residente. Da notare che, pur in assenza del deposito dei titoli presso l’intermediario, l’affidamento di un incarico formale da parte del contribuente a intervenire nella riscossione dei dividendi consentirebbe a tale soggetto presso cui sono fatti confluire i dividenti l’applicazione delle ritenute sul netto frontiera (tale possibilità è stata ammessa dall’agenzia delle Entrate nella Circ. 19/E del 2014). Certamente si tratta di un incarico oneroso per l’intermediario, che necessita della piena collaborazione del contribuente e della produzione di apposite autocertificazioni che ne escludano la responsabilità.