Le 1000 e una soluzioni giuridiche per i casi di looted art

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Le opere trafugate dai nazisti vengono definite genericamente con l’espressione “looted art”. Cosa accade quando nel mercato ci si imbatte in queste opere? Un esempio lo offre il Van Gogh in asta da Christie’s il prossimo novembre

 

Durante la seconda guerra mondiale, i nazisti facevano razzia di tutte quelle opere di avanguardia considerate Entartete Kunst (“arte degenerata”), e come tali destinate ad essere cancellate dal regime. Ma depredavano anche le collezioni di altri stati o di privati, per venderne le opere e ricavarne denaro, oppure per destinarle ai musei tedeschi o ancora per abbellire le dimore dei gerarchi.
Nel 1972 il cratere di Eufronio attraversava l’oceano Atlantico alla volta di New York, ridotto in pezzi per permetterne una “indisturbata” circolazione, terminando il suo viaggio al Metropolitan Museum. Accertato l’illecito acquisto, dopo lunghe trattative tra Italia e Stati Uniti, nel 2008 veniva restituito al nostro paese. L’intento, naturalmente, era quello di ricollocare l’arte nel suo luogo d’origine, ma, anche, di sfruttare tecniche, alternative al contenzioso, per la risoluzione di dispute internazionali su opere d’arte.

Un acquerello del 1888 di Vincent Van Gogh verrà offerto in asta da Christie’s nel novembre 2021, partendo da una stima minima di 20 milioni di dollari: posseduto da un industriale ebreo-tedesco, fu affidato ad un mercante d’arte quando il proprietario fu costretto a lasciare il proprio paese d’origine, nel 1938. Successivamente acquistato da un erede della famiglia di banchieri de Rothschild, venne poi sequestrato dai nazisti; finì infine presso la Wildenstein & Co., da cui il magnate texano del petrolio Edwin Cox lo comprò negli anni 70. Ora il ricavato d’asta verrà diviso tra gli eredi dell’industriale ebreo, dei de Rothschild e di Cox, sulla base di un accordo transattivo.

Cos’hanno in comune queste tre storie? Si tratta sempre di vicende di arte “scomparsa” in tempo di guerra.

Destinatarie delle confische furono soprattutto, ma non solo, le opere italiane: si stima che le opere trafugate dai nazisti, definite genericamente con il termine “looted art”, siano quasi cinquecentomila, di cui oltre la metà provenienti dall’Italia.

Al termine della seconda guerra mondiale, il recupero degli oggetti d’arte brutalmente sottratti venne però accantonato come questione di importanza secondaria.

A seguito di varie mobilitazioni internazionali, tuttavia, si giunse finalmente alla ratifica della Convenzione UNESCO del 1970 e della Convenzione UNIDROIT del 1995; nel 1998, con la ratifica dei Principi di Washington, emerse infine e in maniera decisiva l’impegno internazionale a far luce sui crimini compiuti in epoca nazista, anche nel campo dell’arte.

Tutt’oggi, le singole autorità statali promuovono e avviano azioni volte a garantire la restituzione dell’arte illecitamente depredata.

Permane però il problema di tracciare l’esatta provenienza e, dunque, la “storia” di un bene artistico, al fine di determinare se sia stato effettivamente oggetto di una illecita spoliazione.

A livello di diritto comparato, deve ricordarsi che esiste una netta divisione fra l’approccio dei paesi di diritto continentale (Italia, Francia, Germania, Svizzera e Spagna) e quello dei paesi di diritto anglosassone (Regno Unito e Stati Uniti): se i primi accordano, di norma, tutela all’acquirente di un bene rubato sulla base del principio “possesso vale titolo”, nonché della presunta buona fede del possessore, gli ultimi invece consentono sistematicamente al proprietario originario, illecitamente spossessato, di recuperare il bene, secondo la massima ereditata dal diritto romano “nemo dat quod non habet” (nessuno può trasferire ciò che non possiede).

Parallelamente, nell’ambito del privato, davanti a questi casi si pone la spinosa questione di determinare chi debba prevalere, fra l’originario proprietario di un’opera, ingiustamente spogliatone, e colui che, ignaro del furto, ne sia entrato in possesso in un secondo momento, talvolta a distanza di parecchi anni.

Queste vicende pongono dunque e costantemente interrogativi su quale sia la migliore soluzione giuridica per affrontarle.

In realtà, non esiste una soluzione unica e univoca: ci si muove attraverso una gamma di sfumature che vanno – come accennato sopra – dall’instaurazione di un giudizio alla soluzione bonaria, raggiunta fuori dai tribunali.

Anche la giurisprudenza italiana, dal canto suo, cerca di esplorare il perimetro di questo terreno, tanto intricato quanto affascinante.

Ad esempio, in una recentissima sentenza (Cass. n. 11456 del 30 aprile 2021), la Suprema Corte, interpretando l’art. 1161 c.c., spiega che il proprietario di un’opera d’arte che si riveli razziata dovrebbe – quanto più può – esporla ed esibirla in pubblico, dimostrando in tal maniera di aver posseduto il bene “in modo visibile a tutti, o almeno ad un’apprezzabile e indistinta generalità di soggetti”.

Perché solo così il collezionista potrà avvalersi dell’usucapione, che si compie, per i beni mobili, in 10 anni, se chi usucapisce è in buona fede, o, diversamente, nel termine di 20 anni.

In termini pratici, questo significa che, sin dal momento dell’acquisto, il compratore dovrà essere sufficientemente avveduto da esporre il suo dipinto in mostre, inserirlo in pubblicazioni e così via.

Sul medesimo tema si è pronunciata anche la sentenza n. 16059, resa dalla II sezione civile della Corte di Cassazione in data 14 giugno 2019, con riguardo al caso dei dipinti sottratti durante la seconda guerra mondiale alla famiglia Loeser.

Infine, davanti a questo intricato quadro, in cui si intrecciano problematiche storiche e giuridiche, non possono sottacersi gli incommensurabili aspetti morali ed etici: la restituzione di un’opera non potrà certo ritenersi equivalente a quanto perso e sofferto dalle vittime di una guerra o di un regime, ma si tratta senza dubbio di un segnale di giustizia significativo, indispensabile per contribuire a ristabilire un equilibrio tragicamente sconvolto sotto molteplici profili.

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