È indubbio che si inizino a vedere i primi effetti della politica restrittiva delle banche centrali, con l’inflazione che si sta finalmente abbassando, basti pensare che negli Stati Uniti a ottobre si è attestata al 3,2% e nell’Eurozona è scesa al 2,9%, in entrambi i casi sui minimi a due anni. Si tratta di dati confortanti, anche se il target del 2% è ancora da agguantare. In aggiunta, gli Stati Uniti stanno registrando una forte resilienza al contesto di tassi alti: la crescita del Pil è stata del 4,9% annualizzato nel terzo trimestre, superando le attese degli esperti; anche il mercato del lavoro sembra mantenersi forte.
Lo stesso discorso non si può invece fare per l’Europa con la Germania che appare destinata a chiudere il 2023 in recessione.
Molti investitori erano convinti che le politiche aggressive implementate dalle banche centrali avrebbero imposto un freno all’economia, ma così non è stato. Eppure è importante non dimenticarsi che i risultati di queste politiche spesso sono molto ritardati e possono vedersi fino ai 18 mesi dopo, quindi è ancora troppo presto per festeggiare.
Come si vede dal grafico, il divario nella trasmissione dei tassi tra Eurozona e Stati Uniti è molto profondo; secondo Max Stainton e Yi Hu, esperti di Fidelity International, il divario dipende dalle profonde differenze tra i canali creditizi delle due aree. “Il credito dell’Area Euro e? costituito principalmente da prestiti bancari, e l’88% del debito corporate e? finanziato tramite prestiti a tasso variabile. Diversamente, negli Stati Uniti la maggior parte del debito corporate e? finanziato tramite i mercati dei capitali, prevalentemente basati su tassi fissi”.
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Insomma, negli States gli aggressivi rialzi dei tassi sono stati ammortizzati da un elevato debito a scadenza fissa emesso dalle impresse dopo la fine della pandemia. Questo significa che molti debitori si sono assicurati tassi fissi relativamente bassi e solo al momento del rifinanziamento sentiranno pesare l’effetto degli alti tassi di interesse, ma questo momento non è ancora arrivato.
Per ora, i consumatori sono riusciti a portare sulle loro spalle la crescita dell’economia statunitense, aiutati anche da un mercato del lavoro forte e caldo, al punto da convincere la Federal Reserve a portare avanti una politica molto aggressiva. Tuttavia, iniziano a vedersi le prime crepe: i consumatori stanno esaurendo i risparmi accumulati nel periodo della pandemia e adesso dipendono maggiormente dalle carte di credito e il tasso di disoccupazione si sta piano piano alzando, arrivando a ottobre al 3,9%. Gli esperti sottolineano anche che a questo bisogna aggiungere il fatto che “il muro delle scadenze del debito e le esigenze di rifinanziamento si profilano all’orizzonte per i prossimi trimestri”.
Tutti questi fattori, se guardati insieme, sembrano sostenere l’idea che l’anno prossimo una recessione sia l’esito più probabile per gli Stati Uniti.