Gli investimenti in startup e imprese innovative in Italia hanno subito un’importante flessione lo scorso anno, ma non è stata l’unica a incassare un calo
Piol: “In Italia c’è innanzitutto un problema culturale, perché l’investitore è sempre stato molto conservativo. Il rischio viene visto come un pericolo”
Il mercato del venture capital statunitense è notoriamente più maturo rispetto all’Italia, ma anche al resto del mondo. Come racconta a We Wealth Alessandro Piol, consigliere della Fondazione Elserino Piol e venture capitalist con un’esperienza di oltre 40 anni dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, i primi esempi risalgono alla metà degli anni ’50. Ma è dagli anni ’70 che è diventata un’industria più strutturata. Chiaramente, nell’arco di più di mezzo secolo, tante cose sono cambiate.
“Io ho iniziato a occuparmi di venture capital nel 1992”, ricorda Piol. “Innanzitutto, oltre 30 anni fa nel mirino c’erano società come Starbucks, ovvero società ad alta crescita nel settore retail. Oggi invece l’attenzione è focalizzata sul tech e sulla biotecnologia. Ma non si tratta solo di una questione di comparti. Anche le barriere in entrata sono diminuite in modo importante. Negli anni ’90 bisognava investire 2-3 milioni di dollari per consentire alla società interessata di costruire le sue fondamenta, acquistare per esempio computer, software o riunire uno staff che ne supportasse la crescita. Ora invece due ragazzi in un garage con due laptop riescono a far partire un’azienda, principalmente perché possono contare su servizi che già esistono, come il cloud computing o determinati software”. Questo shift, continua Piol, ha innescato un’esplosione di startup in tutto il mondo. E ha reso più facile, non solo negli Stati Uniti ma anche in Europa, investire in questo campo.
La flessione del 2023 (non solo in Italia)
Anche se non sono mancati saliscendi. Gli investimenti in startup e imprese innovative in Italia hanno subito un’importante flessione lo scorso anno, ma non è stato l’unico paese a registrare una contrazione. “Questo perché il venture capital è un’industria ciclica, va su e giù. Essendo l’attività che precede il resto delle industrie dal punto di vista del processo della crescita, quello che succede è che spesso ci sono degli eccessi”, dichiara Piol. “Lo abbiamo visto nel 2000 con lo scoppio della bolla di internet (anche nota come bolla delle dot-com, ndr) quando la passione e la foga di investire nelle nuove tecnologie informatiche ha preceduto di gran lunga il mercato stesso. In altre parole, quello che succede è che spesso si investe e si cerca di avanzare più velocemente di ciò che è possibile, quando il mercato ancora non c’è. Col rischio di sbagliare, investendo troppo presto”.
L’intelligenza artificiale risolleverà il mercato?
Negli ultimi anni, dice Piol, ci sono stati eccessi di entusiasmo simili. Seguiti da uno stop alla quotazione delle società e a un calo dei valori che ha inciso negativamente sui ritorni per gli investitori. Il trend dell’intelligenza artificiale potrebbe tuttavia influire in senso positivo adesso, secondo l’esperto. “L’Ai esiste da 40 anni, ma non poteva funzionare in passato perché non c’erano le capacità tecnologiche e di calcolo per sviluppare prodotti che fossero potenti ed efficienti. Ora siamo arrivati a quelle capacità tecnologiche e di calcolo. L’Ai ha vissuto una fase di hype nel novembre del 2022, quando si iniziò a discutere di intelligenza artificiale generativa. Qualcuno del venture capital allora era già in crisi. Quindi l’Ai sta aiutando ora a risollevare il mercato”, afferma Piol.
Cosa può imparare l’Italia dall’esperienza Usa
Ma cosa può imparare l’Italia, nell’attuale contesto di mercato, dall’esperienza statunitense? “In Italia c’è innanzitutto un problema culturale, perché l’investitore è sempre stato molto conservativo. Il rischio viene visto non come un’opportunità ma come un pericolo”, dice l’esperto. “In più, c’è poca cultura del fallimento. In America provare a sviluppare un’idea che può avere successo e poi non funziona, non viene vista come una decisione negativa ma come una scelta coraggiosa. Qualcosa che può accadere. Invece nel nostro Paese, se si fallisce, ci si porta dietro lo stigma di quel fallimento”. Tra l’altro, continua Piol, il Belpaese sconta anche una minore cultura del successo. “Altrove i successi degli imprenditori vengono utilizzati come esempi per altri, basti pensare a Jeff Bezos o a Elon Musk. Come se fossero dei modelli da seguire. In Italia invece subentrano gelosie e dubbi”. A tutto questo si aggiunge il fatto che il mercato italiano è un mercato piccolo. Su questo – secondo Piol – l’Italia ha qualcosa da imparare da Israele, che ha iniziato a sviluppare idee che potessero essere esportate fin da subito; quindi con applicazioni non locali ma internazionali.
La Fondazione Elserino Piol, da questo punto di vista, ha un approccio simile. Intitolata a Elserino Piol, padre del venture capital in Italia scomparso lo scorso anno, si propone di proseguire il percorso da lui tracciato: creare valore e innovazione partendo dai giovani. “L’idea è di aiutare dei territori un po’ remoti – che hanno subito anche una migrazione di giovani verso altri lidi – a mantenere la popolazione e sviluppare nuove idee. Con l’intenzione che se poi alcune di queste idee diventano sviluppabili a livello globale, possono essere esportate, anche costituendo delle startup”, racconta Piol. “Mio padre ha sempre creduto che l’innovazione fosse uno dei driver principali di sviluppo dell’economia e che venture capital e startup potessero esserne il motore. La fondazione può essere anche portatrice di opportunità al venture capital in Italia o coinvolta come incubatrice di idee che saranno sviluppate da altri investitori”.