Non si tratta solo di un problema locale. Partendo da piccole gallerie infatti, queste opere possono poi facilmente infiltrarsi nel mercato globale dell’arte, fluendo fra le mani di gallerie internazionali, case d’asta, fiere d’arte, collezionisti privati, fondazioni e musei. Anche qui in Italia. Questo è particolarmente vero oggi. L’arte dei nativi americani riscontra infatti un rinnovato interesse internazionale: dalle grandi mostre al MoMA alle nuove commissioni di artisti al Metropolitan Museum of Art, passando per la nomina dei primi curatori in assoluto di arte nativa americana presso importanti musei statunitensi. Anche il mondo commerciale internazionale ha iniziato a prendere nota: la Biennale di San Paolo ha messo in mostra artisti indigeni e stand di gallerie di arte nativa americana sono stati visti ad Art Basel e all’Armory Fair di New York.
Ma perché, nell’attuale mondo globalizzato, è davvero così importante che solo “mani native” producano arte nativa? Se l’arte è vista oggi come una filiera ininterrotta dal produttore al mercato globale, allora perché l’identità di gruppo di chi crea l’opera può costituire un problema? Anche se quello in esame potrebbe sembrare solo un caso territorialmente limitato, non è così, a ben vedere. Non si può infatti negare che una funzione importante dell’identità artistica è quella di segnalare l’appartenenza continuativa a un gruppo, comunità o nazione.
Oltre l’identità: autenticità nominale ed espressiva dell’opera d’arte
Si potrebbe dire che per l’arte esistono due tipi di “autenticità”. L’autenticità nominale, ovvero la corretta identificazione delle origini, della paternità o della provenienza di un oggetto. E l’autenticità espressiva, avente a che fare con il carattere dell’oggetto d’arte in quanto vera espressione dei valori e delle credenze di un individuo o di una società.
Le culture che storicamente sono state vulnerabili a dominazioni, appropriazioni e saccheggi stranieri sono particolarmente sensibili a questo tema, che siano consapevoli o meno del loro passato. Purtroppo, questa forma di autenticità culturale può essere foraggio di razzismo, narrazioni nazionaliste (il fascismo ne è un esempio), oggetto di appropriazione culturale e anche causa di malintesi tra diverse culture. Non ultimo, in assenza di adeguata protezione, il mercato se ne può appropriare senza scrupoli.
Possiamo imparare qualcosa da come la cultura dei nativi americani si approccia ai due concetti di autenticità. Nel corso dei secoli, quelle comunità hanno sviluppato pratiche religiose e culturali protette da protocolli condivisi a livello comunitario. Si tratta di regole molto concrete, riguardanti il permesso di trasferire diritti, le responsabilità degli artisti incaricati di perpetuare la loro arte. Includono pratiche e riti che privilegiano la continuità e la conservazione del patrimonio piuttosto che la rottura o la dispersione.
Aiutano a creare un senso positivo di comunità tra gli artisti, in contrasto con il nostro concetto più caro dell’individualità dell’artista e l’unicità del suo gesto creativo. Ma questo non vuol dire che la creatività rimane statica per i nativi americani. Attraverso i rituali di trasferimento, la comunità può lavorare per adattare le pratiche tradizionali a circostanze nuove, come la corretta e rispettosa realizzazione, esposizione o vendita dell’opera d’arte ad un pubblico contemporaneo non nativo.
Secondo gli artisti e gli storici dell’arte che scrivono su questo argomento, i processi creativi degli artisti indigeni costituiscono le fondamenta delle loro comunità culturali, plasmate su una ritualità pervasiva. È poi fondamentale il concetto di reciprocità: i processi creativi dipanano il tessuto relazionale e più in generale il dialogo tra la singola tribù e le entità esterne con cui essa interagisce.
Allo stesso tempo, la creatività artistica nativa implica responsabilità verso il passato e il futuro, potendo anche mostrare gratitudine e un senso di rispetto nei confronti delle fonti. Per questi motivi, il lavoro comunitario, le decisioni di gruppo e le collaborazioni sono le guide che riproducono la cultura materiale.
È questa indole profondamente comunitarista – a volte svalutata dall’arte odierna – a fornire agli indiani d’America stabilità culturale, continuità e sopravvivenza. Grazie a questa rete, l’autenticità assume un nuovo significato e un nuovo ruolo, che va al di là della “mano dell’artista”, del copyright, delle licenze o della estate planning. C’è di più. La morte del singolo artista si carica di minori ansie, giacché l’opera può continuare a vivere nella riproduzione, assumendo nuovi significati dopo la fine della vita terrena dell’autore, proprio grazie alla continuazione dei processi rituali di trasferimento dell’autenticità.
Stiamo parlando solo di una questione relativa ai nativi americani? Nel 1951, Gio Ponti disse notoriamente che l’arte italiana poteva diventare grande solo se fatta da “mani italiane”. Ponti credeva che questo aspetto fosse proprio ciò che rendeva l’arte italiana unica e distinguibile da quella di altre nazioni. Le sue parole, che risuonano ancora oggi, potrebbero segnalare un profondo e spesso non riconosciuto bisogno di continuità culturale, anche di fronte alla globalizzazione e all’individualismo occidentale.