Il nuovo libro di Andrew Scott, Professore di economia presso la London Business School e autore famoso di letteratura sulla longevità, è un viaggio dentro il concetto di allungamento della vita, facendo ordine tra promesse roboanti e progressi reali. Ma anche tracciando la strada verso una
longevità sostenibile, ovvero in buone condizioni. Il progresso che gli investimenti e gli sforzi concentrati sulla scienza della longevità stanno portando è un seme prezioso che o cade in un terreno fertile, rivoltato e concimato all’uopo, oppure si seccherà nella odiosa dimensione di una scienza sperimentale per pochi ricchi. La posta, la meta di tutti questi sforzi non può essere così infima. Anche i grandi studiosi vogliono che le loro fatiche portino il mondo a vivere meglio, riducendo per tutti la forbice tra aspettativa di vita e aspettativa di vita in buona salute (in Italia oltre 10 anni). Ma per invecchiare tutti meglio occorre coinvolgere due stakeholder di primo livello: gli individui e gli Stati.
Gli individui
Gli individui perché comprendano che la sostenibilità della loro longevità è più sulle sue spalle che su quelle degli scienziati. Per vivere 90-100 anni in buone condizioni servono risorse economiche e buona salute, senso di scopo e socialità. Se continuiamo a vivere a caso, esponendoci a stili di vita sbagliati e bruciando il nostro benessere all’impronta, come se fossimo ancora uomini di fatica dell’800 che alla fine ciò che davvero importa è godersi ad ogni costo quel poco tempo libero che ti ritrovi perché la vita dura poco, non ce la faremo mai. Vivere più a lungo ma in cattive condizioni costa caro e, allo stesso tempo, coincide con minore disponibilità fisica e mentale al lavoro in età senior, che invece potrebbe integrare il reddito pensionistico. Mantenersi in buona salute aumenta la qualità della vita e la capacità, se necessario, di guadagnare. Quello che siamo chiamati a capire è che vivere più a lungo è un regalo solo se si accompagna a un prolungamento del benessere, per il quale occorre applicarsi: lavorando, risparmiando, investendo. Come uno dei Paesi più longevi al mondo dovremmo essere tra i più attivi nella previdenza complementare e nelle assicurazioni. E invece, facciamo esattamente l’opposto.
Gli Stati
Il secondo stakeholder è persino più ostico. Gli Stati si trovano a dover re-immaginare le nostre società in virtù di una aspettativa di vita sempre più lunga: come modificare il welfare, come adattare il sistema pensionistico, come ridisegnare le città perché ci si possa vivere in modo soddisfacente a 90 anni o a 10; come spostare il focus della sanità pubblica dalla cura delle malattie alla prevenzione. Nel libro Scott afferma che 12 mesi in più di aspettativa di vita in buona salute potrebbero significare 3% o 4% in più di Pil in un anno. Ciò contrasterebbe o compenserebbe le attuali stime di impoverimento del Paese per via del costo, appunto, di un invecchiamento in cattive condizioni.
Per gli Stati vuol dire anche comprendere che se viviamo fino 100 anni, sarà necessario lavorare fino a 80 e allora bisogna rivedere il concetto di lavoro, di produttività, di carriera, di pensionamento. Perché il lavoro com’è oggi non è sostenibile per una carriera di 50 anni. Infine gli Stati sono chiamati a ridurre le disuguaglianze che rendono la longevità di alcuni un peso insostenibile. In Giappone, dice sempre Scott che riprende i dati del World Economic Forum, il gap pensionistico tra uomini e donne è quasi al 50%. Beh, noi siamo mediamente al 37%. Non possiamo lasciare che la metà di una popolazione già chiamata dalla longevità alle proprie responsabilità, parta così svantaggiata. Ma tutto questo richiede lavoro di immaginazione, cultura della longevità condivisa con tutte le parti sociali e un ruolo fondamentale alla sanità pubblica. Siamo pronti?
Articolo tratto dal n° di maggio di We Wealth.
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