“L’incertezza che questa incongruenza genera è dannosa – dice a We Wealth Christian Miccoli, ceo e founder del wallet Conio – Consentire invece al mercato di svilupparsi genererebbe un maggior gettito in termini di Iva che quello che si riesce a ottenere con la tassazione sulle plusvalenze”
L’agenzia delle entrate scrive che “la circolazione dei bitcoin, quale mezzo di pagamento si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge”
Cos’è il bitcoin secondo l’Agenzia delle entrate
Ma prima vediamo cosa afferma la già citata risoluzione dell’agenzia delle entrate. Ebbene, in estrema sintesi, che il bitcoin è assimilabile a una valuta estera che se viene acquistata non produce reddito e dunque non è soggetta a tassazione. Più precisamente, l’Agenzia delle entrate scrive che “bitcoin è una tipologia di moneta “virtuale”, o meglio “criptovaluta”, utilizzata come “moneta” alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa da una Autorità monetaria. La circolazione dei bitcoin, quale mezzo di pagamento si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge”.
Il parere dei giudici europei
Per utilizzare i bitcoin, gli utenti devono entrarne in possesso: – acquistandoli da altri soggetti in cambio di valuta legale; – accettandoli come corrispettivo per la vendita di beni o servizi. “Con riferimento al trattamento fiscale applicabile alle operazioni relative ai bitcoin e, in generale, alle valute virtuali, non si può prescindere da quanto affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza 22 ottobre 2015, causa C-264/14… Secondo i giudici europei, tali operazioni rientrano tra le operazioni “relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio” di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2006/112/CE. In assenza di una specifica normativa applicabile al sistema delle monete virtuali, la predetta sentenza della Corte di Giustizia costituisce necessariamente un punto di riferimento sul piano della disciplina fiscale applicabile alle monete virtuali e, nello specifico ai bitcoin. In ossequio a quanto affermato dai giudici europei, pertanto, si ritiene che l’attività di intermediazione di valute tradizionali con bitcoin, svolta in modo professionale ed abituale, costituisce una attività rilevante oltre agli effetti dell’Iva anche dell’Ires e dell’Irap.
Le operazioni a pronti di valuta? Non sono tassabili
Ma non è soggetta a imposizione fiscale per i clienti della società di intermediazione. Più precisamente, l’Agenzia scrive che “per quanto riguarda, la tassazione ai fini delle imposte sul reddito dei clienti della Società, persone fisiche che detengono i bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa, si ricorda che le operazioni a pronti (acquisti e vendite) di valuta non generano redditi imponibili mancando la finalità speculativa. La Società, pertanto, non è tenuta ad alcun adempimento come sostituto d’imposta”.
L’effetto di un cortocircuito
Allora perché paghiamo le tasse al 26% sulle plusvalenze da criptovalute? “Il cortocircuito si è creato nel 2017 – dice Miccoli – quando sempre più persone effettivamente guadagnavano con i bitcoin, l’Agenzia ha ricevuto altri interpelli a cui però ha risposto sempre in via privata ed esclusiva, senza cioè mai pubblicare altri documenti. In quel caso la risposta è stata che, come per le operazioni in valuta estera, se si detengono più di 50mila euro per più di sette giorni interviene l’elemento della speculazione e dunque i guadagni sono tassabili”. Insomma, lo Stato ha scelto di fare cassa, ma sembra incredibile che, di fatto, non abbia mai messo questa decisione nero su bianco in maniera ufficiale.
Il tema è controverso, perché di fatto bitcoin è diverso e nuovo rispetto alle monete tradizionali e probabilmente l’errore sta nel cercare di inquadrarlo in un ordinamento nato decisamente prima che fosse anche concepito. Infatti, è vero che se si detiene valuta estera in banca, per un valore superiore ai 50mila euro e per più di sette giorni, eventuali plusvalenze ricavate dalla vendita sono tassate, ma è altrettanto vero che se lo stesso denaro paradossalmente viene detenuto in contanti e poi scambiato ottenendo un valore superiore a quello del primo acquisto, si esce da quell’inquadramento giuridico.
“Di fatto, i bitcoin detenuti su wallet hanno lo stesso significato del contante – continua Miccoli – per cui sarebbe logico non applicare nessun genere di tassazione. Ma in generale ritengo che lasciare che il settore si sviluppi, senza frapporre balzelli sia molto più conveniente anche in termini di gettito fiscale: chi guadagna con bitcoin, ha disponibilità da spendere e muove l’economia e i consumi. Ma la cosa peggiore è agire in maniera incongruente come in questo caso fa l’agenzia delle entrate: questo crea incertezza e l’incertezza com’è noto è la peggior nemica dello sviluppo economico”.