Insomma, a oggi, se bitcoin sta giocando un ruolo nel conflitto di Ucraina (che non a caso il Washington Post ha definito la “prima guerra crittografica della storia”) è un ruolo del tutto positivo. Via bitcoin e etherum il governo Ucraino ha raccolto alla data in cui scriviamo (il 25 marzo) circa 40 milioni di dollari. “Bitcoin ha dimostrato di essere uno strumento di sostegno finanziario molto efficiente e trasparente – dice Medri a We Wealth – Sulla blockchain è possibile vedere in qualsiasi momento quanti btc sono stati ricevuti, quanti ritirati o trasferiti ad altri indirizzi e quanti disponibili sull’indirizzo. Senza considerare che il trasferimento è immediato”. E che le transazioni non possono essere falsate, modificate, rese opache.
Ma certamente le preoccupazioni per usi criminali non mancano. La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, nel documento che annunciava il quarto pacchetto di sanzioni anti-russe, aveva incluso il divieto di usare crypto asset per gli oligarchi (che attraverso quel mezzo potrebbero trasferire la propria ricchezza e finanziare Putin). Un eccesso di prudenza secondo Medri. Perché per quanto sia possibile che il gruppo di potere di Uhnwi vicino a Putin usi bitcoin per evitare le confische o per movimentare risorse al momento è un’ipotesi remota. “Non si può escludere che accada – afferma Medri – Ma al momento non sta succedendo: ce lo dicono i flussi che segnalano le transazioni di bitcoin effettuate in rubli”.
In particolare, nella prima settimana di guerra, dal 24 febbraio al 7 marzo, gli scambi di bitcoin sono passati da 65 a 255 al giorno, con picchi di 500 coin. Dunque in media i volumi sono quadruplicati, per poi abbassarsi di oltre il 33% nelle due settimane successive. “Il volume complessivo aggiuntivo di bitcoin e tether tra il 24 febbraio e il 24 marzo ammonta a meno di 600 milioni di dollari (in totale da inizio anno i due mercati hanno movimentato cumulativamente circa un miliardo): cifre troppe piccole per pensare che siano gli oligarchi a muoverle”, precisa il ceo. Anche in considerazione del fatto che “le grandi transazioni (sopra i 100mila dollari) nel periodo del picco, tra il 24 febbraio e il 7 marzo, sono rimaste in un range tra 15mila e 23mila su un totale di circa 300mila transazioni. E anche in questo caso non si notano movimenti anomali che possano far pensare a spostamenti di grandi capitali in corrispondenza con l’inizio e l’evoluzione della guerra. È necessario riflettere su questi numeri: vietare bitcoin in questo momento potrebbe danneggiare ancora una volta la parte debole, senza avere nessun effetto su chi si vorrebbe realmente colpire”.
Ed è del tutto da escludere, secondo Medri, che il picco di compravendite dei primi giorni possa corrispondere a un’azione orchestrata dalla Russa per sfuggire dalle sanzioni e in particolare per contrastare l’estromissione del sistema Swift.
“I flussi rilevati – precisa Medri – hanno una dimensione troppo piccola per coprire movimentazioni necessarie a controbilanciare le sanzioni: che riguardano ordini di grandezza di 100 volte superiori”. Le stime più prudenziali sull’andamento del Pil russo a fine 2022 vedono un calo del -7,8% (pari a circa 115 miliardi di dollari). Le riserve in valuta estera del Paese ammontano a 630 miliardi e l’esposizione debitoria verso controparti estere 478 miliardi. Gli Ide russi sono infine superiori a 17 miliardi di dollari. “Non è pensabile neppure che il governo russo possa rapidamente fare uno switch da una finanza tradizionale a una basata su bitcoin perché è necessario avere un’infrastruttura tecnologica e una controparte che accetti i pagamenti in cripto: ovvero processi che richiedono investimenti cospicui e tempo”. Forse Mosca potrebbe creare il suo rublo digitale? “Si tratta – conclude Medri – di uno scenario futuribile, ma non praticabile nell’immediato, cioè nei tempi di questa guerra, che si spera prossima a concludersi”.