Nazi-looted art: oblio o trasparenza? Una lezione americana

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Un progetto di legge dello Stato di New York vuole imporre ai musei di segnalare se le opere esposte sono state oggetto di spoliazione durante l’epoca nazista. Si stima che 600mila pezzi siano stati sottratti alle famiglie ebraiche in quel periodo e 100mila mai più restituite. La norma potrebbe essere utile anche in Italia?

Dialogo tra un avvocato ed una storica dell’arte 

Prologo 

Il 10 agosto scorso il governatore dello Stato di New York Kathy Hochul ha firmato un progetto di legge che prescrive ai musei dello Stato di riconoscere pubblicamente se un’opera d’arte esposta in un museo con sede nello Stato sia stata rubata o altrimenti oggetto di spoliazione durante l’epoca nazista. Più precisamente, la nuova legge prevede che “ogni museo che esponga un’opera d’arte che possa essere identificata come un’opera creata prima del 1945 e che sia passata di mano (changed hands) a causa di un furto, un sequestro, una confisca, una vendita forzata ovvero in qualsiasi altro modo involontario in Europa durante l’era nazista (1933-1945) dovrà, nei limiti del possibile esporre in modo particolarmente visibile accanto all’opera esposta una targa ovvero altra segnaletica che dia atto di tale informazione”. 

Il progetto di legge è partito da una riflessione: si ritiene che durante il regime nazista circa 600.000 opere d’arte siano state razziate ai danni di famiglie ebraiche. Queste opere sono state rubate, oppure in quanto considerate espressione di arte “degenerata”, vendute dal regime per ricavarne valuta straniera o anche distrutte.

In numerosi casi le opere non sono state direttamente razziate da funzionari del regime, ma vendute dagli stessi proprietari in risposta ad una pressione diretta o indiretta esercitata dal regime, o anche semplicemente per procurarsi la liquidità necessaria per acquistare la propria salvezza. In numerosi casi gli eredi degli originari proprietari hanno avviato complesse e costose cause finalizzate alla restituzione delle opere razziate o ad ottenere quanto meno un indennizzo economico. In altri casi, è possibile che gli eredi non esistano ovvero che la restituzione – per vari motivi riconducibili essenzialmente o alla legge del luogo dove si trovano le opere ovvero alla natura pubblica dell’attuale ente proprietario – non sia consentita. 

La Claims Conference tenutasi a Praga nel 2009 ha stimato che a quella data le opere d’arte non restituite ai legittimi proprietari derubati o ai loro eredi fossero oltre 100.000. Centinaia di queste opere risultano essere state acquisite a vario titolo da musei nello Stato di New York.

Questa legge ha uno scopo essenzialmente educativo: non a caso è stata inserita nella legge generale sull’educazione dello Stato di New York. Essa si giustifica considerando che 24 anni dopo l’approvazione dei c.d. Washington Principles, le linee-guida internazionali per la restituzione dell’arte razziata dai nazisti, c’è ancora molta strada da percorrere, nella direzione della giustizia a favore dei pochi sopravvissuti, delle famiglie di coloro che sono stati direttamente colpiti dalla tragedia dell’Olocausto, ma anche dell’educazione, della conoscenza storica e della consapevolezza delle nuove generazioni.
La legge non ha una finalità “restitutoria”, e non prevede alcuna sanzione in caso di inosservanza dell’obbligo di informazione.

Potrebbe essere utile una legge analoga anche in Italia, dove la conoscenza del nostro passato è spesso trascurata, se non addirittura condannata all’oblio?

Giuseppe Calabi

Il primo dei Washington Principles on Nazi-Confiscated Art del 1998 prevede che “l’arte confiscata dai nazisti e successivamente non restituita debba essere identificata”. Gli stessi Principi prevedono che debbano essere trovate “just and fair solutions” per tutti i casi di arte confiscata, non solo a beneficio degli eredi delle vittime della persecuzione, ma anche a prescindere dall’identificazione delle vittime o dei loro eredi.
L’Italia purtroppo non svetta nella classifica dei Paesi che hanno aderito ai Washington Principles, quale Stato che si è maggiormente distinto per offrire “just and fair solutions” nei casi in cui un’opera, anche di proprietà pubblica, abbia una provenienza riconducibile ad uno dei casi individuati dal legislatore dello Stato di New York: non solo ai casi di opere confiscate, ma anche a quelli di opere che siano state oggetto di vendite forzate, ossia viziate da violenza morale (duress in inglese). 

I musei italiani sono prevalentemente pubblici e la legge pone ostacoli apparentemente insormontabili qualora si scopra che un quadro appartenente al patrimonio indisponibile o al demanio dello Stato abbia una provenienza problematica con riferimento al periodo 1933-1945. Queste opere non possono (anche volendo) essere restituite, perché per legge appartengono al demanio culturale. A meno che la legge non sia riformata. Si noti bene: il caso raramente potrà riguardare un’opera che lo Stato italiano abbia direttamente razziato durante il periodo in cui le leggi razziali sono state in vigore (1938-1945) ai danni di ebrei italiani o stranieri residenti in Italia e che sia rimasta in un museo pubblico. Saranno più frequenti i casi in cui l’opera sia arrivata in un museo italiano attraverso vendite (o anche donazioni) successive e che attualmente sia nella pubblica fruizione. 

Si sente frequentemente affermare che l’opera ora è nella pubblica fruizione e quindi è meglio che rimanga dove si trova, perché gli eredi del soggetto razziato, qualora la ottenessero in restituzione, la venderebbero per ripartirsi il ricavato e l’opera cadrebbe nell’oblio. Meglio che resti pubblica, si dice, anche se con un certo imbarazzo. Questo argomento è inaccettabile: gli eredi devono avere assoluta precedenza. In base ai Washington Principles (n. 8) deve essere innanzitutto considerata la restituzione. Solo in seconda battuta, si devono trovare “fair and just solutions”. Ma qui si aprono scenari molto incerti: cosa è una fair and just solution? La legge dello Stato di New York, anche se apparentemente sprovvista di sanzione in caso di inosservanza dell’obbligo di informazione, costituisce un apprezzabile tentativo di colmare questo gap. I musei newyorkesi fino ad ora non si sono espressi in modo esplicito. Il fenomeno è tuttavia diffuso, se si pensa che il solo Metropolitan Museum di New York esibisce 1.107 opere con una provenienza riconducibile all’era nazista (fonte: https://www.timesofisrael.com/new-york-law-on-nazi-looted-art-aims-to-shine-light-on-lesser-known-holocaust-evil/). 

Ovviamente, un’interpretazione letterale dell’obbligo di informazione previsto dalla nuova legge ne consentirebbe anche una facile elusione: se l’opera non è più “esposta”, non vi è obbligo di informazione, ma se questo atteggiamento prevalesse, sarebbe un segnale di allarme e testimonierebbe una scarsa disponibilità del museo di fare i conti con la storia delle proprie opere e quindi con la propria funzione educativa.
In Italia i musei, se non possono restituire un’opera razziata, dovrebbero almeno fornire in modo inequivoco e ben visibile informazioni sulla provenienza di un’opera nella loro collezione riconducibile ad una spoliazione in epoca nazista. Questa potrebbe essere una fair and just solution, anche in assenza di una legge che la imponga, oppure dovremmo anche noi seguire l’esempio del legislatore dello Stato di New York ed introdurre un impegno in tal senso per qualsiasi museo, pubblico o privato? 

Sharon Hecker 

La nuova legge che impone ai musei di targare le opere d’arte saccheggiate dai nazisti è un passo legale atteso da tempo per richiedere trasparenza sulla provenienza di una categoria di opere d’arte acquisite ingiustamente.

Esistono già diversi database online e linee guida di best practices, ma queste non sono state sufficienti a garantire la trasparenza e il riconoscimento della travagliata storia di questa categoria di opere d’arte. Si spera che questa legge diventi in futuro un modello per altri musei e in altri paesi, come l’Italia. Si spera inoltre che la legge venga estesa oltre alle opere d’arte saccheggiate dai nazisti anche ad altri tipi di oggetti saccheggiati a causa del colonialismo o ad oggetti culturali estratti illegalmente da zone di conflitto.
Per le opere che sono già state restituite ai proprietari originari, agli eredi o ai loro paesi d’origine e che successivamente sono state vendute o donate ai musei, raccontare la loro tragica storia d’origine è fondamentale. Può essere educativo per il pubblico e allo stesso tempo soddisfare la missione didattica del museo. Ma che dire delle opere che si sospetta siano state saccheggiate e i cui proprietari non sono ancora stati rintracciati? Le etichette costringeranno i musei a rivelare pubblicamente di possedere opere d’arte saccheggiate che non sono state restituite ai loro proprietari? I musei accetteranno di esporsi come possessori di tali opere? Marc Masurovsky, co-fondatore dell’Holocaust Art Restitution Project (HARP) è scettico. 

Per arrivare alle cause della situazione attuale, dobbiamo considerare la questione dell’etichettatura in una prospettiva più ampia e all’interno del sistema dell’arte. Dobbiamo chiederci come i musei siano arrivati a possedere tali opere. Dal gran numero di opere di questo tipo presenti nei musei di tutto il mondo, sembra ragionevole concludere che quando un’opera è stata presa in considerazione per l’acquisizione, non è stato condotto un processo di due diligence approfondito e metodico. Questo continua a essere il problema più profondo. Esiste ancora la politica del “non chiedere non dire”, che non incoraggia i musei a indagare a fondo sul passato di un’opera d’arte prima di ammetterla al museo. Spesso i musei sostengono che la provenienza fornita dal venditore (o dal donatore) non li ha messi in guardia da un potenziale problema. Alcuni musei dispongono di specialisti dedicati alla ricerca della provenienza, ma non è ancora la norma.

Un esempio di catena di provenienza non esaminata è il dipinto del Metropolitan Museum of Art, attualmente intitolato Il ratto di Tamar e attribuito a Eustache Le Sueur. 

Nel catalogo d’asta di Christie’s del 1983 la sua provenienza era indicata semplicemente come “proprietà di un gentiluomo” e senza alcun riferimento ai precedenti proprietari. La casa d’aste si è affidata alle norme sulla privacy che non prevedono la rivelazione dei nomi propri nella provenienza. Inoltre, la casa d’aste non ha fatto ricerche sulla precedente catena di proprietà. Né i galleristi che hanno acquistato il dipinto all’asta hanno condotto una propria due diligence indipendente per scoprire i nomi dei proprietari. Secondo il New York Times, il Metropolitan non ha rivelato quali ricerche abbia condotto al momento dell’acquisto dell’opera e ha annunciato che il dipinto “non aveva una provenienza nota prima della sua apparizione all’asta da Christie’s a Londra”. 

Tutti questi elementi costituirebbero un campanello d’allarme per i ricercatori di provenienze.

Solo dopo l’acquisto si è scoperto che l’opera apparteneva a un proprietario ebreo che era fuggito dai nazisti e che era stato costretto a vendere le proprietà della sua famiglia, insieme al dipinto, nel 1933. Dopo la guerra, il proprietario originale ha trascorso tutta la vita a lottare senza successo per recuperare il dipinto. L’opera è ancora oggi esposta nel museo e l’ampia discussione sulla provenienza che si trova online cita in parte la sua proprietà contestata, senza specificare il suo status di opera saccheggiata. Per quanto la nuova legge sia apprezzabile, in definitiva è solo un primo passo. L’intero sistema dell’arte deve essere tenuto a rispettare gli stessi standard di due diligence, ricordando che il valore di un’attenta restituzione di un’opera alla sua vera storia, soprattutto se tragica o scomoda, non è una responsabilità che ricade solo sulle spalle dei musei.

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