Le Birkin di Hermès nel metaverso: copie o creazioni?

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Era caduta nel vuoto la diffida che la celeberrima casa di moda aveva inviato al creatore delle “MetaBirkins”, le borsette in formato nft di quelle originali. Così, la causa fra Hermès e l’artista Mason Rothschild si è svolta. E si è conclusa. L’esito pone molte questioni, a partire da un procedimento che si risolse in modo diametralmente opposto

Il nuovo anno preannunciava battaglia. E così è stato.

A gennaio 2022 circolava la notizia che la celeberrima casa di moda Hermès avrebbe inviato una diffida al creatore delle “MetaBirkins”, verosimilmente accompagnata da una richiesta di takedown diretta ad OpenSea. Cosa aveva scatenato le ire del colosso francese?

Il rinomato marchio di moda non aveva gradito che fossero state fatte circolare sulla piattaforma OpenSea delle repliche in formato nft delle borse Birkin, vere e proprie icone del prêt-à-porter.

Autore del “misfatto”, l’artista Mason Rothschild, colpevole di aver ideato una borsa, in versione “pelosa” ed esclusivamente digitale, che replicava in modo palese il modello di titolarità della maison.

La posta in gioco, del resto, valeva lo scontro: pare che il business collegato alle MetaBirkins abbia generato scambi di cifre a tre zeri. Secondo fonti di stampa, il primo nft della “metaborsa”, parte di una limited edition di cento pezzi, sarebbe stato acquistato per 42.000 dollari.

Ci si chiedeva quindi se qualcuno si sarebbe mai preso il disturbo di rispondere alla scottante domanda: può un brand spingersi fino al metaverso per contrastare fenomeni di (lamentata) contraffazione, diluizione, agganciamento o concorrenza sleale? La risposta non si è fatta attendere.

Hermès ha infatti diffidato Rotschild e il marketplace: al primo ha chiesto di distruggere le proprie opere digitali e i non-fungible-token ad esse connesse; a OpenSea è stato invece domandato di rimuovere dalla propria piattaforma qualsiasi dato o metadato connesso alle borsette virtuali. 

Del resto, da un punto di vista strettamente legale, questa è la procedura che tipicamente si segue (c.d. notice and takedown): l’azione contro il solo autore di un’opera creata in (presunta) violazione del copyright vantato da terzi non sarebbe efficace, se non venisse accompagnata anche dalla richiesta, rivolta all’internet service provider (ISP), di cancellare i contenuti asseritamente lesivi del diritto altrui, in modo da “ripulire” la rete da qualsiasi riproduzione non autorizzata.

Fatto sta che OpenSea, al ricevimento della diffida inviata dalla casa di moda, ha prontamente rimosso dalla propria offerta le creazioni incriminate, mentre Rothschild si è limitato a far “migrare” le sue opere sulla piattaforma Rarible.

Constatando che l’azione così intrapresa non aveva portato i risultati sperati, Hermès è stata costretta a citare in giudizio l’artista digitale.

La causa è stata instaurata negli Stati Uniti, paese di residenza di Rothschild, accusato di essere uno “speculatore digitale, che vuole arricchirsi facilmente aggiungendo al marchio registrato Birkin, universalmente riconosciuto, un generico suffisso ‘Meta’, senza averci (Hermès, ndr) interpellato e violando le leggi in materia di trademark”. 

Da questa accusa l’artista si è difeso replicando di non creare né vendere Birkin, bensì di produrre opere d’arte che raffigurano delle Birkin immaginarie, ricoperte in pelliccia, e invocando il Primo Emendamento, utilizzato anche da Andy Warhol per commercializzare le sue tele raffiguranti i barattoli di zuppa Campbell.

Il 18 maggio scorso, la Corte Distrettuale Sud di New York ha emesso la sua decisione: applicando appunto il Primo Emendamento, e seguendo quanto stabilito nel caso Rogers v. Grimaldi, del 1989, la Corte ha riconosciuto la tutelabilità dell’operato dell’autore delle borse digitali. 

La Corte ha così sciolto – prima a pronunciarsi su una controversia del genere – il seguente punto nodale: se gli nft delle MetaBirkin dovessero essere trattati come opere dell’ingegno, tutelate dal diritto d’autore, pur considerando che i non-fungible-token sono strumenti che si limitano ad autenticare la proprietà di un’opera d’arte digitale; o, al contrario se essi dovessero piuttosto qualificarsi alla stregua di prodotti non creativi, prettamente commerciali, con conseguente applicazione della regola di esclusione di tutela sotto il profilo del legge sul copyright.

Il Giudice americano ha riconosciuto la prevalenza dell’elemento artistico-creativo, dando così ragione a Rothschild, ma la sentenza contiene interessanti considerazioni su di un caso (Polaroid Corp. v. Polarad Electronic Corp., 1961) deciso in maniera diametralmente opposta. Merita una lettura!

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