Albers, tra libertà di espressione, monopolio e scarsità

L’assenza di un certificato di autenticità non indica automaticamente che l’opera sia falsa, come ha stabilito il tribunale di Milano per un dipinto ereditato da un gallerista italiano e venduto a un mercante svizzero. È una rivoluzione per il mondo dell’arte

Prologo

Un gallerista italiano eredita dal padre (anch’egli gallerista) un quadro dell’artista tedesco naturalizzato americano Josef Albers (1888-1976), intitolato Study for Homage to the Square, e lo offre in vendita ad un mercante svizzero. Il gallerista italiano dichiara di aver smarrito il certificato di autenticità rilasciato dalla celebre galleria di New York Sydney Janis e di non avere neppure un numero di archiviazione dell’opera.

Il mercante svizzero, che aveva già acquistato dipinti di Albers dal gallerista italiano, è interessato all’acquisto dell’opera e la sottopone a Nicholas Fox Weber, executive director della Albers Foundation. La Albers Foundation è stata istituita negli Stati Uniti nel 1971 dall’artista e dalla moglie Anni, anch’essa una nota artista, per tutelare e promuovere il lavoro artistico della coppia. Weber si reca presso la galleria per visionare direttamente l’opera e la reputa falsa, così come ritiene apocrifa la firma apposta sull’opera, e decide di denunciare il gallerista italiano al nucleo di tutela del patrimonio culturale dei Carabinieri.

In primo grado, il Tribunale ritiene provata la non autenticità dell’opera, essendosi espresso in tal senso Weber con la propria denuncia e poiché il gallerista italiano non è stato in grado di fornire alcun certificato di autenticità, lo condanna per il reato di ricettazione alla pena della reclusione ridotta, a seguito dell’applicazioni delle attenuanti, ad 1 anno e sei mesi e ad una multa di 4.000 euro.

Lo scorso 3 novembre la Corte d’Appello di Milano ha riformato la sentenza di primo grado ed ha assolto il gallerista italiano per i seguenti motivi: (a) un gallerista deve consegnare in base alla legge italiana (articolo 64 del Codice dei Beni Culturali) un certificato di autenticità, ma può capitare che non sia disponibile un certificato, soprattutto se l’acquisto dell’opera avviene a titolo ereditario, come nel caso in esame; (b) il parere della Fondazione Albers, parte offesa nel reato di ricettazione, deve essere oggetto di un vaglio di attendibilità particolarmente rigoroso: la Fondazione è sicuramente tra i massimi esperti al mondo per valutare l’autenticità delle opere dell’artista, ma “possiede il monopolio sul rilascio dei certificati di autenticità”, risulta proprietaria di opere ed è quindi inevitabilmente portatrice di interessi economici sul mercato, “dovendosi ipotizzare un potenziale conflitto di interesse”; (c) l’imputato ha dimostrato con una expertise, non tanto l’autenticità dell’opera, ma piuttosto la sua provenienza attraverso iscrizioni sul retro del dipinto riconducibili alla grafia del padre e, forse, anche dell’artista, la sua pubblicazione in un volume, la cui prefazione era stata firmata dello stesso Weber ed, infine, attraverso prova fotografica, che la stessa opera fosse stata esibita in una mostra tenuta nel 1988 dalla galleria ereditata dal padre, “ufficializzata nel sito internet della stessa Fondazione Albers”; (d) inoltre, sostiene la Corte, l’assenza di un certificato di autenticità relativo ad un’opera non può automaticamente farla ritenere falsa.

Le circostanze sopra indicate hanno fatto concludere al giudice d’appello che l’imputato avrebbe forse potuto avere qualche motivo di sospetto in relazione all’assenza di un certificato di autenticità, ma questo non sarebbe stato sufficiente ad integrare una condotta riconducibile al cosiddetto “dolo eventuale”, ossia alla condotta di chi pur considerando l’eventualità di una provenienza delittuosa non avrebbe agito diversamente, anche se di tale provenienza avesse avuto certezza.

Quindi, per la Corte d’Appello il fatto non costituisce reato di ricettazione con conseguente assoluzione dell’imputato.

La sentenza può stimolare alcune interessanti riflessioni sia da un punto di vista legale, sia in una prospettiva storico-artistica.

GC

E’ molto discusso il ruolo che le fondazioni e gli archivi d’artista hanno nel rilasciare certificati di autenticità, la responsabilità che può derivare dal rilascio o dal diniego di un certificato di autenticità e gli strumenti di cui i collezionisti dispongono nel caso in cui l’aspettativa che hanno di ottenere un certificato di autenticità sia frustrata dal diniego espresso dalla fondazione o dall’archivio.

In estrema sintesi, in Italia è prevalso l’orientamento per cui le fondazioni e gli archivi esprimono un semplice parere e la loro libertà di espressione debba essere protetta, come richiede l’articolo 21 della Costituzione, contro indebite interferenze o attribuzioni di responsabilità: un parere riflette l’opinione di chi lo esprime e può differire da quello espresso da chiunque altro: in un regime di libertà costituzionalmente garantita, ogni parere ha pari dignità rispetto ad un altro. Peccato che la realtà sia ben diversa: il parere delle fondazioni e degli archivi non è considerato equivalente a quello di qualsiasi altro esperto, ma spesso è un vero e proprio “lasciapassare” (gate keeper dicono gli americani) per far circolare l’opera nel mercato.

Nel caso dell’opera di Albers, si può sicuramente convenire con la sentenza d’appello che non sia sufficiente la parola espressa dalla Fondazione ovvero l’assenza di un certificato di autenticità per qualificare l’opera come falsa. Così come non è sufficiente un certificato di autenticità per ritenere un’opera autentica. Il giudizio sull’autenticità o meno di un’opera presuppone un’analisi complessa che è (o meglio dovrebbe essere) una prerogativa di coloro che siano universalmente ritenuti gli esperti dell’autore dell’opera e frequentemente implica un dialogo tra competenze storico/artistiche e scientifiche che variano in funzione dell’artista, della tipologia di opera, dell’epoca e dei materiali utilizzati per la realizzazione dell’opera.

La parte della motivazione che mi lascia perplesso è quella che attiene al supposto privilegio “monopolistico” delle fondazioni e degli archivi nel rilascio di certificati di autenticità ed al conflitto di interesse che le stesse possano avere, qualora siano proprietarie di opere che saltuariamente decidano di collocare sul mercato. E’ vero che numerose fondazioni sono anche proprietarie di opere e che il patrimonio artistico di una fondazione, che normalmente è un ente non-profit, possa anche costituire un mezzo per garantire alla fondazione la possibilità di svolgere la propria attività di valorizzazione dell’opera dell’artista. Ma ritenere che per questa ragione, la fondazione sia indotta a restringere l’accesso al mercato delle opere dell’artista con il fine di far salire i prezzi delle opere stesse e, quindi, il valore del proprio patrimonio (creando quello che gli economisti chiamano scarcity pricing) e che quindi l’attività di autenticazione sia svolta in potenziale conflitto di interessi, a me sembra eccessivo. Mi sembra inoltre che questa teoria presupponga la dimostrazione che la curva relativa ai prezzi delle opere di un’artista sia elastica al punto tale che gli stessi possano essere direttamente condizionati dal maggiore o minore numero delle opere che la fondazione abbia deciso di far accedere al mercato. Se ed in che misura vi sia questa reattività dei prezzi delle opere di Albers rispetto al numero delle opere che circolano sul mercato è una questione che forse potrà essere affrontata da un economista che abbia studiato questo mercato: dal punto di vista giuridico, mi pare che l’argomentazione della Corte d’Appello sia debole.

La spiegazione che si può dare al ragionamento della Corte d’Appello è che la stessa ha dovuto valutare la colpevolezza o meno dell’imputato nel reato di ricettazione (offerta in vendita di un’opera ritenuta falsa dalla Fondazione, parte offesa nel procedimento) e che poiché la dichiarazione della parte offesa ed i motivi per i quali la stessa abbia ritenuto l’opera falsa devono essere valutati con particolare rigore, non fosse sufficiente la dichiarazione “è falsa” ovvero l’assenza di un certificato di autenticità. Leggendo la motivazione della sentenza, risulta che questa abbia dato rilievo al fatto che la Fondazione aveva già “incrociato” l’opera in passato, senza sollevare criticità e che Weber abbia addirittura scritto la prefazione di un catalogo nel quale l’opera risultava pubblicata. Certo, ci si può sempre sbagliare, ci mancherebbe altro ! Ma poiché la questione trattata dalla Corte d’Appello era se l’imputato fosse o meno colpevole di ricettazione, i fatti acquisiti dal giudice d’appello hanno giustificato la sua assoluzione: l’imputato non era consapevole di offrire un’opera potenzialmente falsa ovvero non vi è la prova che, se l’imputato fosse stato certo della falsità, avrebbe comunque offerto l’opera sul mercato (dolo eventuale).

Il giudice d’appello non si è espresso, né si doveva esprimere sull’autenticità o meno dell’opera e questo resta un tema aperto, così come è aperta la questione se quest’opera possa circolare sul mercato, malgrado il parere negativo espresso dalla Fondazione.

SH

La sentenza dei giudici d’appello è un caso emblematico per il diritto, la storia dell’arte ed il mercato dell’arte. Vediamo il diritto riconoscere esplicitamente il valore della richiesta di prove storico-artistiche e la necessità di fornire un ragionamento su cui fondare una determinata opinione sull’attribuzione o l’autenticità di un’opera d’arte, sia essa espressa dalla fondazione di un artista, dall’erede, dall’estate o da uno studioso indipendente.

Gli avvocati e gli storici dell’arte sanno bene che qualsiasi processo di raccolta delle prove richiede tempo. Non avendo speso del tempo sufficiente per raccogliere e valutare le prove, al di là del parere di un esperto, anche se molto qualificato, è ciò che probabilmente ha condizionato l’immediato sequestro del dipinto da parte dei carabinieri e la decisione di condanna del gallerista italiano da parte del tribunale in primo grado. Il procedimento d’appello ha evidenziato una due diligence sul dipinto superficiale o incompleta e l’ha censurata da un punto di vista legale: la riforma della sentenza di primo grado da parte della Corte d’Appello è quindi un esempio virtuoso di come la legge sia ben impostata per adottare una posizione chiara sulla necessità di una ricerca storico-artistica approfondita e motivata.

Alla base di questa vicenda c’è la mancanza di una serie codificata di passi o di un protocollo standard riconosciuto per raccogliere e interpretare le prove nei procedimenti giudiziari in cui si discuta dell’autenticità di un’opera d’arte. Dalla lettura della sentenza risulta che la Fondazione abbia formato la sua opinione esclusivamente attraverso la connoisseurship, o l’esperienza e l’occhio dell’esperto, “constatando nell’immediatezza che si trattava di un’imitazione”, che “la falsità appariva ictu oculi” e che la firma era “al suo occhio esperto totalmente apocrifa.” Un’ulteriore perizia basata sempre su connoisseurship è stata espressa anche da un secondo esperto, che è anche l’autrice di un Catalogo Ragionato di Albers, di imminente pubblicazione. Ma la connoisseurship, per quanto sia uno strumento valido per esprimere un’opinione, non può essere considerata come unica “prova” storico-artistica per l’autenticità o la falsità di un’opera. Deve essere accompagnata da altre forme di prova. Questo è stato correttamente riconosciuto dalla Corte d’Appello.

In questo caso, i due esperti lavorano entrambi per la Fondazione. Ma la sentenza d’appello ha concluso che la Fondazione possiede un monopolio nel rilascio di opinioni e certificati di autenticità. Viceversa, seguendo uno standard di raccolta delle prove, anche le opinioni esterne alla Fondazione dovrebbero sempre essere incluse e valutate. Un passo cruciale e mancante nel processo di primo grado sarebbe stato quello di creare un pool di esperti indipendenti al di fuori della Fondazione, composto da specialisti di Albers e scienziati della conservazione con esperienza nei materiali e nelle tecniche dell’artista. Se questi esperti fossero arrivati alla stessa conclusione della Fondazione, ma attraverso un metodo basato sulle prove, questo avrebbe potuto rafforzare l’affidabilità dell’opinione della Fondazione. L’applicazione di questo stesso metodo avrebbe potuto potenzialmente aiutare anche il gallerista, perché se avesse condotto la sua propria due diligence prima di mettere in vendita l’opera, avrebbe potuto dimostrare l’autenticità dell’opera, indipendentemente dalla sua appartenenza alla collezione di suo padre. I collezionisti dovrebbero considerare che la circostanza di aver ereditato un’opera non può essere mai considerata l’unico elemento di prova a sostegno dell’attribuzione, o dell’autenticità di un’opera, perché non esclude la possibilità di un falso.

Un ulteriore fatto emerso durante il procedimento è che l’opera era stata esposta in una mostra con una prefazione scritta dal direttore della Fondazione ed era apparsa in un’altra mostra sostenuta dalla Fondazione. Occorre ricordare che gli esperti e le fondazioni possono e devono essere liberi di cambiare la loro opinione, se vengono alla luce nuove informazioni d’archivio convincenti o se emergono nuove tecniche per analizzare un’opera d’arte. Tuttavia, qualsiasi cambiamento di opinione richiede una dettagliata ed analitica giustificazione. Quando è ben ragionato, un cambiamento di opinione da parte di uno studioso qualificato può avere un enorme impatto storico-artistico e di mercato sull’opera.

Infine, c’è la formulazione della Corte d’Appello riguardo al “monopolio” della Fondazione e ad un suo potenziale “conflitto di interessi”. Non vedo questo aspetto solo in relazione allo scarcity pricing. Se una fondazione rilascia expertise e certificati di autenticità e, allo stesso tempo, è autrice del catalogo ragionato dell’artista ed inoltre vende opere di tale artista, allora sono d’accordo con la Corte d’Appello che la posizione di monopolio della fondazione possa qualificare la sua condotta come “sleale” rispetto al lavoro di qualsiasi altro studioso che esprima pareri sull’autenticità delle opere dell’artista. Inoltre, una fondazione potrebbe rifiutare il rilascio di certificati di autenticità di opere che siano state considerate autentiche da altri studiosi qualificati e rispettati, causandone la svalutazione sul mercato e non permettendone l’inclusione nel catalogo ragionato.

La sentenza della Corte d’Appello lascia tuttavia aperte due domande più generali: La situazione attuale sta potenzialmente permettendo alle fondazioni e gli archivi ad essere in “concorrenza sleale” rispetto alla più estesa comunità degli storici dell’arte, ostacolando un dibattito importante e fruttuoso e non lasciando spazio a opinioni espresse da altri studiosi, altrettanto valide rispetto a quelle espresse dalle stesse fondazioni o archivi? Il sistema attuale è in grado di creare affidabilità nel mercato? Personalmente, ritengo che sia confortante sapere che la legge abbia iniziato ad intervenire in modo chiaro su questi temi e spero che sia solo un primo passo.

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