L’altra faccia (economica) della violenza sulle donne: come riconoscerla

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La violenza economica, tra le più subdole e meno note, colpisce in Italia quasi una donna su due. Eppure, viene considerata “molto grave” solo dal 59% dei cittadini e delle cittadine. Un’indagine condotta da WeWorld e Ipsos restituisce i numeri di un fenomeno rispetto al quale manca ancora una definizione condivisa nei diversi ordinamenti statali; mentre le misure di contrasto restano frammentarie

Il 49% delle donne dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita; una percentuale che sale al 67% tra le donne separate o divorziate

Oggi 1,4 miliardi di donne vivono in paesi che non riconoscono la violenza economica nei loro sistemi legali o non forniscono protezione legale alle vittime

Il reddito di libertà è un sostegno economico destinato alle donne che tentano di allontanarsi da situazioni di violenza e versano in condizioni di povertà

Quasi una donna su due, in Italia, subisce violenza economica. In passato definita come una forma di abuso emotivo e psicologico, oggi viene sempre più riconosciuta come un tipo distinto di violenza, tra le più subdole e meno note. Una delle definizioni più diffuse la identifica come tutti quei “comportamenti volti a controllare l’abilità della donna di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche”. Alla base, come raccontato in un recente rapporto condotto da WeWorld e Ipsos e intitolato Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica, c’è quel meccanismo di prevaricazione patriarcale da cui originano tutte le altre forme di violenza. Eppure, viene considerata “molto grave” solo dal 59% dei cittadini e delle cittadine.

L’indagine, condotta su un campione di 1.200 individui e diffusa in vista della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, restituisce risultati allarmanti. Il 49% delle donne dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita; una percentuale che sale al 67% tra le donne separate o divorziate. Doversi giustificare a voce con il proprio partner per come sono stati spesi i soldi è una delle esperienze più citate (15%), ma c’è anche chi ha dovuto mostrare scontrini, ricevute o estratti conto (11%), chi ha subito decisioni finanziarie prese dal proprio partner senza essere stata consultata (14%) e chi si è vista negata la possibilità di lavorare (11%). L’imposizione di privazioni economiche da parte dell’uomo nei confronti della donna preoccupa il 91% del campione complessivo, seguito dall’accumulo di debiti da parte dell’uomo a nome della donna (24%), dal sabotaggio lavorativo (17%), dal controllo delle finanze (11%) e dal rifiuto da parte del partner di contribuire alle spese comuni all’interno della famiglia (6%).

In generale, per il 49% degli intervistati e delle intervistate le donne sono più spesso vittime di violenza economica perché hanno meno accesso degli uomini al mercato del lavoro. E i numeri, anche a livello globale, lo dimostrano: 2,7 miliardi di donne vivono in paesi che legalmente impediscono loro di scegliere tra le stesse opportunità di lavoro degli uomini. Nel 2018, secondo l’UN Women (l’ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere), su 189 economie analizzate 104 avevano ancora leggi che vietavano alle donne di svolgere determinati lavori e in 18 i mariti potevano legalmente impedire alle mogli di lavorare. Non stupisce dunque se gli uomini vivono una condizione economica migliore rispetto alle donne. Nel 2022, sempre a livello mondiale, il 61,4% delle donne con un’età compresa tra i 25 e i 54 anni aveva un lavoro a fronte del 90,6% degli uomini. In uno scenario come questo, in caso di divorzio o separazione la violenza economica trova nuove dinamiche in cui innestare le sue radici. Tornando al rapporto Ipsos-WeWorld, il 37% delle donne separate o divorziate dichiara di non ricevere per niente la somma di denaro concordata per la cura dei figli. Una su cinque riesce a ottenere solo una parte, mentre una su quattro avverte difficoltà a trovare un lavoro con un salario sufficiente al suo sostentamento.

Violenza economica: come riconoscerla

“La violenza economica, spesso vista come un sottoinsieme della violenza domestica, implica rendere o tentare di rendere una persona finanziariamente dipendente mantenendo il controllo totale sulle risorse finanziarie, negando l’accesso al denaro e/o vietando la frequenza scolastica o lavorativa”, spiega Simona Scarpaleggia, board member di Edge Strategy, società che misura e certifica l’uguaglianza di genere in azienda. “Tale esclusione finanziaria ingiustificata e imperdonabile si esprime in molti modi diversi, limitando per esempio l’accesso al credito da parte delle donne o negando loro addirittura la possibilità di aprire un conto bancario o possedere una carta di credito o debito. Con diversi effetti a catena, a partire dal blocco dell’accesso all’assistenza sanitaria, all’occupazione e all’istruzione”. Nella sfera privata, continua Scarpaleggia, i campanelli d’allarme sono tre:

  • forme di controllo, come proibire alla donna di avere un proprio conto corrente bancario, chiedere denaro per le spese correnti e una puntuale rendicontazione o tenere la donna completamente all’oscuro della situazione finanziaria della famiglia;
  • forme di sfruttamento, ovvero gestire le risorse finanziarie della donna appropriandosi di fatto dei suoi beni;
  • forme di sabotaggio, come proibire o rendere indirettamente proibitivo per la donna avere un impiego.

“Ci sono diverse ragioni che insieme concorrono a creare un terreno fertile per la violenza economica nei confronti delle donne”, continua l’esperta. “Ragioni legate a retaggi culturali, secondo i quali le donne sono viste come subalterne rispetto agli uomini; ragioni di economia familiare, essendo affidato alle donne il lavoro di cura non retribuito e quindi – ingiustamente – non valorizzato; e infine la mancanza di educazione finanziaria. Tutto questo innesca spesso un circolo vizioso di dipendenza economica che diventa alibi per la violenza economica”.

Reddito di libertà, 6 milioni in più per il 2024

Oggi 1,4 miliardi di donne vivono in paesi che non riconoscono la violenza economica nei loro sistemi legali o non forniscono protezione legale alle vittime. L’Italia, dal proprio canto, ha speso in generale circa 157 milioni di euro per supportare percorsi di uscita dalla violenza, di cui circa 20 milioni in misure di sostegno al reddito, 124 milioni in progetti di inserimento lavorativo e 12 milioni per favorire l’autonomia abitativa dal 2015 al 2022, stando ai calcoli di ActionAid. Ma gli strumenti adottati continuano a risultare frammentari e inadeguati, secondo Ipsos e WeWorld. Basti pensare al Reddito di libertà, un contributo di 400 euro al mese (per la durata massima di un anno) destinato alle donne che tentano di allontanarsi da una situazione di violenza, versano in condizioni di povertà e hanno intrapreso un percorso in un centro antiviolenza riconosciuto dallo Stato. Tra il 2020 e il 2022 questa misura è stata finanziata con 12 milioni di euro, una cifra sufficiente a soddisfare massimo 2.500 richieste a fronte di circa 21mila potenziali richiedenti all’anno secondo l’Istat. Nel 2023 il fondo è stato rifinanziato con 1,85 milioni di euro, cui la Manovra ha aggiunto 6 milioni in più per il 2024. Risorse che potranno ancora una volta coprire solo una parte residuale delle richieste.

Violenza economica, come si può combattere

“Per supportare le donne vittime di violenza economica bisogna iniziare a parlare apertamente e incrementare la consapevolezza su questo tema oltre che raccogliere e monitorare sistematicamente i dati relativi a questo fenomeno”, interviene Scarpaleggia. “Ma occorre anche che siano adottate e implementate misure di prevenzione mirate ad affrontare la disuguaglianza di genere come causa principale della violenza contro le donne; introdurre o modificare le normative esistenti per punire gli autori del reato di violenza economica e per proteggere le vittime; e infine introdurre forme di educazione e informazione su come accedere al mondo del lavoro e a strumenti di gestione finanziaria, dai più semplici ai più sofisticati”, aggiunge l’esperta. Ad oggi, ricorda infine, sono pochi i paesi al mondo nei quali si è raggiunta (o quasi) un’equità di genere. “Tra questi sicuramente ci sono quelli del Nord Europa, Islanda, Norvegia, Finlandia e Svezia, che insieme alla Nuova Zelanda ricoprono le prime cinque posizioni nel Gender gap report del World economic forum”. Paesi dai quali l’Italia può cogliere alcuni spunti di riflessione. “Sono paesi con un’alta occupazione femminile, un approccio socio-culturale aperto e inclusivo, un elevato accesso al sistema educativo e sanitario e un’elevata partecipazione alla politica delle donne. Tutti fattori che creano un contesto favorevole a una maggiore equità e quindi, di conseguenza, anche a minori episodi di violenza economica”.

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