Inflazione Usa, buone notizie per Powell (e per i mercati)

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Grazie alla forte riduzione dei costi energetici l’indice Cpi americano è sceso dello 0,1% mensile a dicembre, ma l’inflazione di fondo invita ancora cautela

I mercati hanno ricevuto la conferma sperata sul raffreddamento dell’inflazione statunitense che, grazie a un deciso abbassamento mensile dei costi energetici hanno registrato la prima contrazione dei prezzi a dicembre, con un calo dello 0,1% su novembre. Il tasso annuo dell’indice dei prezzi al consumo (Cpi) si è attestato al 6,5%, il più basso degli ultimi 14 mesi.


L’inflazione di fondo, che esclude alimenti ed energia, però, continua a procedere con un ritmo analogo a quello dei due mesi precedenti, con un incremento congiunturale dello 0,3% e un tasso annuo al 5,7% – segno che, al di là delle componenti più volatili del paniere, ci sono spinte di rincaro che continuano ad estendersi a beni e servizi, delle quali la Federal Reserve avrà di che preoccuparsi nella sua prossima seduta. 

In particolare i costi abitativi sono aumentati dello 0,8% fra novembre e dicembre (aumentando il passo dal precedente +0,6%), portando il rincaro annuo al +7,5%. I costi degli affitti sono fra i più rilevanti nel paniere di calcolo dell’inflazione, costituendo larga parte delle uscite mensili delle famiglie. Anche i servizi (non legati all’energia) hanno proceduto con un rincaro dello 0,5%, in aumento di un decimale rispetto a novembre e un confronto annuo che recita +7%.

La buona notizia, però, è che i costi dell’energia e dei carburanti, che per diversi mesi hanno gonfiato l’inflazione, si sono ridotti in misura ancor più ampia rispetto a quanto osservato a novembre: complessivamente il costo dell’energia è sceso del 4,5% rispetto al mese precedente (contro il -1,6% registrato mese su mese a novembre). Rispetto al dicembre 2021 gli americani hanno continuato a pagare il 7,3% in più per l’energia, ma 1,5% in meno per la sola benzina grazie a una maxi riduzione del 9,4% osservata solo fra novembre e dicembre. Servizi energetici e bollette restano ancora una nota dolente, visto che dopo due mesi di riduzione i costi hanno ripreso ad aumentare dell’1,5% a dicembre, con un incremento annuo arrivato al 15,6%. Il gas nelle case è rincarato del 3% nell’ultimo mese con un conto più caro del 19,3% rispetto a un anno prima.

Il mercato ha immediatamente interpretato il complesso dei dati sull’inflazione come favorevoli per gli obiettivi della Federal Reserve, di conseguenza il dollar index ha ceduto lo 0,6% anticipando una politica monetaria meno restrittiva e, eventualmente, rialzi meno duri da parte di Jerome Powell e i suoi colleghi.

“I dati di dicembre sull’andamento dei prezzi al consumo”, in linea con le attese, “confermano un rallentamento delle pressioni inflazionistiche soprattutto legato alla forte flessione dei prezzi degli energetici. I prezzi core rimangono ancora elevati e lasciano intendere che la Federal Reserve continuerà con una politica di rialzo del costo del denaro ma sarà meno restrittiva rispetto ai mesi precedenti”, ha commentato il senior market strategist di IG Italia, Filippo Diodovich.

Segnali di robustezza dal mercato del lavoro, ma i salari rallentano

Al dato sull’inflazione si è aggiunto quello sulle richieste iniziali di sussidio di disoccupazione, indicativi dell’andamento dei licenziamenti: un dato ancora basso, che ha visto una riduzione di mille unità a quota 205mila. La settimana scorsa il mercato del lavoro aveva continuato a dare segnali di forza con un tasso di disoccupazione ancora al minimo del 3,5% (inferiore alle attese, che erano orientate sul 3,7%), mentre le retribuzioni sono aumentate del 4,6% annuo — un dato sottotono se si considera che a fine 2021, quando l’inflazione era meno elevata, l’incremento era stato del 4,7%. Il dato di dicembre ha visto anche un notevole rallentamento rispetto al +6,2% di incremento salariale registrato dagli Usa a novembre.

Il raffreddamento congiunto di salari e inflazione è musica per le orecchie della Fed e, indirettamente, anche per gli investitori che aspettano di vedere toni più rilassati da parte della Fed nel prossimo futuro. I verbali della Fed hanno però confermato le determinazioni del Comitato sulla rotta finora annunciata ai mercati. Il rischio di ritiro prematuro delle politiche monetarie restrittive, secondo la lezione degli anni Settanta, dovrebbe essere preso molto sul serio, avevano mostrato le minute dell’ultima riunione della Fed. Nei giorni corsi il ceo di JPMorgan Jamie Dimon aveva evocato un tasso terminale dei tassi decisamente superiore al 5,25% atteso dal mercato suggerendo agli operatori un itinerario di inasprimenti monetari più erto del previsto, che potrebbe concludersi al 6%.

Le prossime mosse della Fed

Per la prossima riunione della Fed, aveva dichiarato il 9 gennaio la presidente della Fed di San Francisco, Mary Daly, il rialzo potrebbe essere sia dello 0,25 sia del 0,50%. Attualmente la forchetta del tasso dei fondi federali è fra il 4,25% e il 4,50% – un rialzo da mezzo punto porterebbe i tassi nell’area 5% che i mercati ritengono quella che potrebbe segnare la fine dei rialzi.

“Le nostre aspettative sulle prossime mosse della Fed sono rafforzate con il dato macroeconomico sull’inflazione di dicembre”, ha proseguito Diodovich, “crediamo che il Fomc nella prossima riunione deciderà per un incremento del costo del denaro di ‘soli’ 25 punti base, portando i tassi di riferimento dal range 4,25%-4,50% al nuovo 4,50%-4,75%.

“L’ipotesi di rallentamento del ritmo Fed è stata prontamente sostenuta dal membro votante Patrick Harker, poco dopo la pubblicazione del dato, spingendosi ad ipotizzare che l’inflazione core possa arrivare al 3,5% nel corso del 2023, dall’attuale 5,7%”, ha sottolineato il chief global strategist di Intermonte, Antonio Cesarano. “Lo stesso Harker si è infine espresso a favore dell’ipotesi di posizionare i tassi poco al di sopra del 5% per poi fermarsi. In questo caso, ipotizzando un ritmo di 25punti base, il 5,25% sarebbe raggiunto entro la riunione di maggio. Complessivamente, il dato di oggi” mette la Fed nelle condizioni di preannunciare il rallentamento ed il successivo stop lungo. L’ipotesi stop al 5 o al 5,25% appare un dettaglio che verrà definito nei prossimi mesi”.

“La pubblicazione dei dati odierni fa aumentare le probabilità di un aumento dei tassi dello 0,25% all’inizio del mese prossimo, un ulteriore passo indietro rispetto al precedente aumento dello 0,50%”, ha affermato in sintonia con quanto descritto finora il cio di Moneyfarm, Richard Flax, “allo stesso tempo, le richieste iniziali di disoccupazione e quelle continue sono risultate entrambe inferiori alle aspettative, indicando un mercato del lavoro statunitense ancora solido. I dati sui salari saranno probabilmente al centro dell’attenzione della Fed in futuro, in quanto diventeranno sempre più importanti per determinare l’entità e la velocità del calo dell’inflazione al consumo”.

Secondo Callie Cox, market analyst di eToro negli Usa il dato pubblicato mercoledì non deve entusiasmare troppo: “L’inflazione dei servizi non ha ancora raggiunto il suo picco, e questo è il tipo di inflazione che la Fed vuole tenere sotto controllo. I dati in tempo reale ci mostrano che stiamo facendo progressi su questo fronte, ma la composizione dell’inflazione non è cambiata: l’inflazione dei servizi è ancora un problema e questo dà alla Fed una ragione sufficiente per mantenere alti i tassi”. Anche se il rallentamento del dato generale sull’inflazione potrebbe essere interpretato “come un momento in cui tornare ad accumulare rischio”, Cox ha avvertito che sarà difficile vedere nuovi massimi prima che l’inflazione non sarà tornata “completamente sotto controllo

Gli articoli pubblicati sono stati realizzati da giornalisti e contributors di We Wealth e vengono forniti a Poste Premium a scopo informativo.


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