Fondazioni, il diritto morale dell’autenticità: dialogo tra Giuseppe Calabi e Sharon Hecker
Con una recente ordinanza cautelare (24/52939) il Tribunal Judiciaire di Parigi si è pronunciato in una controversia tra la Fondation Alberto et Annette Giacometti e la casa d’aste Alexandre Landre del Tribunal de Paris originata dal rifiuto della fondazione di rivedere il proprio parere sull’autenticità di una fusione di Alberto Giacometti consegnata dal proprietario alla casa d’aste per la vendita.
La fondazione ha ritenuto che la fusione fosse “difettosa” in quanto non conforme al modello di gesso originale e non potesse essere inserita nel catalogue raisonné, trattandosi di una contraffazione. La fondazione ha anche proposto di far riesaminare la fusione al proprio comitato di esperti a porte chiuse, ma la casa d’aste ha reagito al rifiuto sostenendo che l’opera fosse identica a due esemplari esposti al Centre Pompidou, citando la fondazione e chiedendo al Tribunale di disporre una consulenza tecnica sull’autenticità della fusione.
Il caso Giacometti e un altro caso celebre
La richiesta della casa d’aste non aveva come fine quello di ottenere un ordine di inserimento della scultura nel catalogo ragionato, perché in Francia l’orientamento consolidato a seguito della decisione della Cassazione nel noto caso Maison Blanche (11 marzo 2014, 12-28922) è nel senso che la decisione di inserire o meno un’opera nel catalogo ragionato di un artista sia una manifestazione della libertà di espressione. La casa d’aste ha indicato che l’iniziativa fosse finalizzata ad ottenere un risarcimento del danno nei confronti della fondazione.
Il Tribunale ha rigettato la richiesta di expertise sostenendo che il diritto morale di cui è titolare la fondazione, ossia il diritto di proteggere la legacy di Giacometti contro le contraffazioni, non implica il dovere di pronunciarsi sull’autenticità di qualsiasi opera che le sia presentata, né tanto meno di modificare la propria opinione sulla base di nuovi elementi che siano emersi dopo un precedente giudizio: in altre parole, il titolare del diritto morale non è un “certificatore obbligato”. È condivisibile questa conclusione ? Ed in Italia, quale sarebbe stato l’esito di una controversia simile?

Giuseppe Calabi, avvocato, sul “diritto” delle fondazioni circa l’autenticità
Tra la legge italiana e quella francese c’è una fondamentale differenza: in Italia una fondazione non è mai titolare del diritto morale dell’artista o degli eredi dell’artista che l’hanno costituita. Tuttavia, anche in Italia la libertà d’espressione, costituzionalmente garantita, è la base normativa sulla quale la giurisprudenza ha costantemente negato la sussistenza di un obbligo per archivi e fondazioni di esprimersi sull’autenticità o meno di opere d’arte. La giurisprudenza sì è anche spinta fino a negare che possa sussistere qualsiasi responsabilità in capo a fondazioni o archivi derivante da un parere negativo, ovvero da un rifiuto di certificato di autenticità, ovvero di inserimento di un’opera nel catalogue raisonné.
Questo principio è stato recentemente riaffermato dalla nostra Cassazione nell’ordinanza 3231/2025, nel solco di un precedente del 2017 in un caso che aveva visto coinvolto l’Archivio Alighiero Boetti. In quel caso, la Corte aveva escluso la possibilità di ottenere una sentenza che sancisse erga omnes l’autenticità di un opera, sostenendo che tale accertamento potesse essere fatto solo in via strumentale ed a tutela di un rapporto obbligatorio (compravendita di opera in cui l’acquirente lamenti successivamente la mancanza di autenticità), mentre il proprietario non ha un diritto “assoluto” all’autenticità della propria opera.
La questione delicata è se, a prescindere dalla sussistenza o meno di un obbligo di certificazione in capo all’ente certificatore (la cui esistenza è negata sia in Francia, sia in Italia), quest’ultimo debba o meno dare una motivazione ad un proprio eventuale rifiuto e quale sia il grado di approfondimento della motivazione.
L’ordinanza francese ha ritenuto che l’indicazione di motivi “succinti ma espliciti” (in quel caso: manifesta difettosità della fusione) da parte di esperti “riconosciuti” sia sufficiente a fondare un rifiuto. Ma cosa si intende per succinti? E potrebbe la fondazione limitarsi a dire che l’opera “non è autentica”, senza fornire alcuna motivazione? In Francia probabilmente la fondazione si esporrebbe al rischio di una responsabilità per colpa. In Italia la discussione è aperta, anche se la libertà di espressione può manifestarsi anche in assenza di una motivazione.
Sharon Hecker, storica dell’arte, sulla trasparenza di un’autentica
Da un punto di vista storico-artistico, la possibilità per tutti gli studiosi qualificati con comprovata esperienza su un artista di esprimere opinioni mi è sempre sembrata la via più produttiva per stimolare la ricerca. Questo approccio è anche, a mio parere, il modo più efficace per lavorare in collaborazione tra studiosi per raggiungere un consenso informato, piuttosto che affidarsi a una sola voce autorevole, che si tratti di un singolo studioso o fondazione/istituzione. Questo è il processo con cui operano tutti gli altri campi scientifici.
Fortunatamente, questo metodo di attribuzione per consenso e dibattito aperto è il modo in cui lavoriamo su molti artisti che non hanno fondazioni a loro nome. Lo stesso vale per le fondazioni aperte e intelligenti che accolgono molteplici punti di vista e contributi di vari studiosi, accettando talvolta di rivedere le proprie opinioni quando sono disponibili delle nuove ricerche convincenti. Il Museo Van Gogh e il nuovo progetto di catalogazione online “Van Gogh Worldwide” sono ottimi esempi di questo tipo di collaborazione tra musei olandesi per approfondire gli studi e ospitare la ricerca sulla produzione artistica di Van Gogh.
Secondo la mia opinione ed esperienza, la trasparenza del processo attraverso il quale si è giunti a una decisione è un metodo scientifico riconosciuto dagli studiosi. Serve ad aprire ed incoraggiare il dibattito e, potenzialmente, a giungere a una conclusione collettivamente ragionata sull’attribuzione di un’opera d’arte (che sia definitiva o meno). In questo caso, fornire l’accesso al presunto modello in gesso da cui un’opera in bronzo potrebbe essere stata o meno fusa sarebbe fondamentale per avviare una conversazione seria tra gli studiosi. Dovrebbe includere esperti esterni di processi di fusione di sculture e il contributo di esperti nella scansione 3D della morfologia delle superfici della scultura, al fine di confrontare il modello con la fusione, soprattutto in considerazione del fatto che alcuni dati visivi non possono essere rilevati a occhio nudo.
Inoltre, la ricerca sulla provenienza della fusione mi sembra fondamentale. Anche se una fondazione dovrebbe avere il diritto legale di non esprimere un’opinione o di esprimere la propria opinione, diventa poco utile a livello scientifico se tale opinione non è ben motivata, proprio come un matematico che si rifiuta di mostrare i passaggi per risolvere un problema o un medico che formula una diagnosi senza mostrare come è giunto alla sua conclusione. Ciò include la trasparenza del ragionamento di una fondazione d’artista.