Come catturare le consulenti del domani (anche con i social)

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L’industria della consulenza finanziaria continua ad avere un’impronta prevalentemente maschile. A tenere distanti i talenti al femminile sono diverse incertezze, a partire da quelle legate alla libera professione. Paure che risultano immotivate, quando si dialoga con le banker di oggi

Solo il 44% delle consulenti finanziarie intervistate dichiara di aver valutato l’opportunità di scegliere quella professione prima di intraprenderla

Le donne che svolgono questa professione, più degli uomini, sviluppano un elevato livello di autostima (oltre il 70%) e di autonomia (più del 90%)

Manzi, Università Cattolica: “Occorre lavorare su una comunicazione e un’informazione più efficaci della consulenza, che metta in evidenza le opportunità”

Le donne continuano a rappresentare solo una minuscola fetta dell’industria della consulenza finanziaria. Stando all’ultima fotografia scattata dalla relazione annuale dell’Ocf, al 31 dicembre 2022 le iscritte nella sezione dei consulenti abilitati all’offerta fuori sede dell’albo unico rappresentavano infatti il 22,3% del totale. A tenere distanti i futuri talenti al femminile sono diverse incertezze, a partire da quelle legate all’instabilità e alla libera professione. Paure che tuttavia risultano immotivate, quando si analizza la reale condizione di chi quella professione ha deciso di intraprenderla. A sfatare alcuni falsi miti che hanno contribuito negli anni ad alimentare il divario di genere della consulenza è un nuovo progetto di ricerca multimetodo promosso da Banca Widiba intitolato Donne e denaro: la consulenza finanziaria e presentato in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.

I risultati dell’analisi quantitativa, condotta con Ipsos su un campione di 445 consulenti finanziari e consulenti finanziarie sul territorio nazionale, mostrano innanzitutto come questa tipologia di professione non venga sempre valutata durante il percorso formativo e personale: solo il 44% dichiara di fatto di averla presa in considerazione prima di intraprenderla. La libera professione, seppur percepita in maniera positiva dalla maggior parte dei e delle partecipanti al sondaggio, suscitava timore nel 39% delle consulenti finanziarie (a fronte del 26% degli uomini) così come la mancanza di stabilità (33% contro il 25%). Oltrepassato questo ostacolo, le donne che svolgono questa professione, più degli uomini, dichiarano di aver sviluppato un elevato livello di autostima (oltre il 70% delle intervistate), di autonomia (oltre il 90%) e di vicinanza con le altre persone (oltre il 95%). In più, sono soddisfatte della loro professione, che credono dia un senso più ampio alla loro vita in più dell’85% dei casi. In generale, donne e uomini dichiarano un alto grado di soddisfazione complessiva nella vita professionale e familiare (8,20 in media su 10) e una propensione a cambiare lavoro molto bassa (1,53 su 5).

“È sicuramente una professione molto ben abitata dalle donne, perché consente di non rinunciare alle caratteristiche legate all’identità di genere femminile ma le aiuta anche ad acquistare un’elevata autonomia e a raggiungere ottimi livelli di conciliazione vita-lavoro”, osserva Claudia Manzi, professoressa ordinaria di psicologia sociale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e responsabile scientifico del progetto. “Ma allora come mai sono così poche? Probabilmente questa professione non usa quegli stimoli comunicativi che potrebbero consentire di sorpassare certe resistenze”. A dimostrarlo sono due studi sperimentali che hanno interessato 276 studenti e studentesse in scienze bancarie con un’età media di 25 anni. In generale, gli studenti di entrambi i sessi percepiscono la professione di consulente come un’opzione di carriera meno adatta alle donne rispetto agli uomini. Quando però vengono presentate loro le possibilità relative alla conciliazione tra vita e lavoro e le tutele che le banche mettono in atto per avviare questa professione, gli atteggiamenti delle donne nei confronti di questa scelta professionale migliorano sensibilmente. La percezione negativa sembrerebbe dunque legata a una comunicazione inefficace della professione rivolta alle studentesse, anche nel contesto universitario, che le spinge a ignorare o a non considerarla come opzione di carriera.

“Occorre lavorare su una comunicazione e un’informazione più efficaci della consulenza”, suggerisce Manzi. “Una comunicazione che metta in evidenza le opportunità di conciliare vita privata e lavoro ma anche la sicurezza associata al settore, in termini di tutela dai rischi nelle fasi di avvio alla professione. È importante poi continuare a lavorare, lato banca, su una serie di piani di welfare dedicati a questa professionalità”, aggiunge. “Bisogna rendere più trasparenti le pareti delle aziende, mostrando ai futuri talenti come si vive in azienda e chi saranno i loro potenziali futuri colleghi”, interviene Emanuela Spernazzati, career coach, formatrice hr e comunicazione. E anche i social network possono rivestire un ruolo in questo processo, specie se si pensa ai giovanissimi. 

“I dati ci dicono che il 70% dei ragazzi e delle ragazze della Generazione Z (nati tra il 1996 e il 2010, ndr) considerano la libera professione, ma la conoscono poco”, spiega Carolina Sansoni, co-founder di Talkin Pills, agenzia creativa e canale media dedicati al mondo del lavoro e a chi ne fa parte. “Teoricamente la professione del consulente ha tutto ciò che la nuova generazione ricerca in termini di flessibilità e autonomia, ma non è nota. I giovani vengono a conoscenza delle professioni in due luoghi: la casa e la scuola. L’Italia sconta il tasso di educazione finanziaria più basso d’Europa, quindi non si parla di soldi, figuriamoci di chi lavora con i soldi. Ma questo è un gap culturale che richiederà del tempo per essere colmato. Sul fronte della formazione, ragazzi e ragazze non entrano in contatto realmente col mondo del lavoro finché non finiscono l’università. È importante entrare a gamba tesa con role model ma anche esperienze lavorative pre-laurea. E infine ci sono i social. Le aziende fanno fatica a comunicare con i giovani, incastrate nelle loro linee comunicative corporate. Quello che manca è un lead con i content creator”, conclude Sansoni.

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