Fino a che punto arriva la libertà d’espressione? Dialogo tra Giuseppe Calabi, avvocato, e Sharon Hecker, storica dell’arte
Nel 2023, l’artista islandese Oddur Fridriksson, noto come ODEE, ha registrato il dominio “samherji.co.uk” e creato un sito web la cui home page riportava la dichiarazione “WE’RE SORRY” per denunciare il coinvolgimento della società islandese Samherji, controllante uno dei maggiori gruppi attivi nei settori della pesca e lavorazione del pesce nel cosiddetto scandalo “Fishrot”, riguardante un caso di corruzione diffusa nella quale risultavano coinvolte, a vario titolo, società controllate da Samherji in Namibia.
Il sito imitava fedelmente il sito ufficiale di Samherji, con un link ad un falso comunicato stampa apparentemente riconducibile alla società e contenente un’apologia fittizia per le presunte pratiche corruttive. ODEE ha poi inviato il comunicato per email a numerosi media internazionali, tra cui la BBC, attirando l’attenzione sul sito.
La reazione della corporation
Samherji ha reagito prontamente, citando in giudizio ODEE per violazione dei diritti di proprietà intellettuale e diffamazione. L’azienda ha sostenuto che l’uso del suo logo e del design del sito avesse causato confusione e danni reputazionali. L’artista ha invocato la tutela della propria libertà di espressione sostenendo il proprio diritto di denuncia, anche attraverso la parodia o la satira.
Il 14 novembre 2024, la High Court of Justice inglese ha emesso una sentenza favorevole a Samherji, stabilendo che l’opera di ODEE non costituiva una parodia legittima. Il giudice ha sottolineato che l’uso del logo e del design di Samherji era finalizzato a conferire autenticità al sito falso (cosiddetto “passing off”), senza elementi sufficienti di umorismo o critica per essere considerato una parodia. La corte ha inoltre ritenuto che le azioni di ODEE avessero oltrepassato i limiti della libertà di espressione, configurandosi sia una violazione dei diritti di proprietà intellettuale di Samherji, sia una maliziosa e falsa rappresentazione del logo e del sito societari.
Giuseppe Calabi, avvocato, sul caso dell’artista islandese ODEE
Questa vicenda solleva interrogativi sul bilanciamento tra la libertà artistica e attivismo culturale, da un lato, e protezione dei diritti di proprietà intellettuale, dall’altro. Il caso ha acceso i riflettori sul fenomeno del culture jamming sorto negli anni ’80 e consistente nel sovvertimento dei messaggi pubblicitari o simboli culturali dominanti per rivelarne le contraddizioni, spesso con intento critico o satirico. La vicenda di ODEE, attivista che ha sfidato un colosso della pesca, ha sollevato interrogativi su come il potere economico possa influenzare il dibattito pubblico.
Samherji è stata oggetto di critiche per il proprio coinvolgimento nello scandalo “Fishrot” e per presunti abusi ambientali e violazioni dei diritti dei lavoratori. Per denunciare tali pratiche, ODEE ha lanciato una campagna di culture jamming, trasformando il logo aziendale in immagini provocatorie. L’obiettivo? Denunciare l’impatto dell’industria su ecosistemi fragili e comunità locali. Le sue opere, diffuse sui social e nelle strade di Reykjavík, hanno rapidamente catturato l’attenzione, ma anche scatenato una dura reazione legale da parte dell’azienda. Samherji ha accusato ODEE di diffamazione e violazione del copyright, chiedendogli la rimozione dei contenuti. Ha fatto seguito un acceso dibattito: dove è il confine tra critica legittima e violazione delle norme?
Dinamiche complesse
Alcuni hanno visto nella reazione dell’azienda un tentativo di soffocare il dissenso e limitare la libertà di espressione, diritto fondamentale tutelato in democrazie consolidate. Tuttavia, il giudice inglese ha rigettato tale argomento sostenendo che l’artista avesse registrato il nome di dominio e creato il sito falso con l’intento di ingannare il pubblico sulla riconducibilità degli stessi all’azienda e ciò, oltre alla pedissequa imitazione del logo aziendale, fosse di per sé censurabile, senza che possa essere considerata come scriminante una la libertà di espressione dell’artista.
In conclusione, il caso Samherji contro Oddur Eysteinn Friðriksson mette in luce le complesse dinamiche tra arte, diritto e responsabilità aziendale e l’importanza di trovarvi un equilibrio.
Sharon Hecker, storica dell’arte, sull’artista islandese ODEE
La caricatura, la satira e la parodia sono sempre esistite nell’arte. Tantissimi gli esempi. Nel 1919, Marcel Duchamp dipinse un paio di baffi provocatori su una cartolina della Gioconda di Leonardo da Vinci; nel 2012 Bronwyn Lundberg scambiò Cristo e i santi nella sua Ultima Cena lesbica; i creatori de I Simpson hanno trasformato la Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer in Marge Simpson. Allo stesso modo, il Pensatore di Auguste Rodin è stato adornato con le orecchie di Topolino e l’Urlo di Edvard Munch è stato ridotto a una popolarissima emoji. Si pensi solo alla comparsa “inaspettata” delle opere di Jenny Holzer, Banksy e le Guerilla Girls. Arte a volte umoristica, altre beffarda, che ha sempre avuto lo scopo di provocare lo spettatore a riflettere e a sconvolgere il pensiero comune.
In alcuni casi, le conseguenze sono state gravi, come quando il geniale caricaturista Honoré Daumier fu incarcerato per aver pubblicato nel 1832 immagini altamente critiche del nuovo monarca, Luigi Filippo I, come un Gargantua insaziabile (dal libro di Rabelais, considerato il più grande esempio di satira). Dopo, furono emanate leggi per limitare la libertà di stampa.
Un lavoro “divertente e intelligente”
Come storica dell’arte, trovo il lavoro dell’artista islandese ODEE divertente e intelligente. Ha scovato un modo per sfruttare la nostra fiducia cieca in Internet scioccando il pubblico compiacente nella cultura del marchio. Ma il lavoro di ODEE, volto a denunciare le pratiche non etiche, non può essere paragonato all’essere attirati in siti web che pubblicano fake news o sconti sulla merce, creati per rubare le nostre identità e carte di credito. L’arte di ODEE può essere considerata un’appropriazione con l’obiettivo di oltrepassare il limite, co-optando il marchio di un altro. ODEE potrebbe essere confortato dal fatto che anche Andy Warhol si è appropriato del logo della Campbell’s Soup senza chiedere il permesso all’azienda (e che Warhol è stato citato in giudizio diverse volte per essersi appropriato di immagini senza permesso). Alla fine, la Campbell diede la sua approvazione in virtù del tanto marketing gratuito.
Articolo tratto da We Wealth Magazine 76, febbraio 2025. Abbonamenti qui.