In fondo, c’è un filo rosso ad accompagnare l’elezione di un target di clientela sempre più patrimonializzato, una strada battuta ormai da tutte le maggiori reti di consulenza finanziaria. Da una parte, i margini di guadagno sono sempre più compressi, dall’altra l’orologio offre a tutti solo 24 ore al giorno per mettere a frutto il proprio tempo. Così, le reti puntano a ottimizzare i loro consulenti spingendo le rispettive strategie più o meno nella stessa direzione: verso l’alto. Ossia, verso un segmento “private” declinato in vari modi, ma accomunato dall’obiettivo di far crescere la consistenza del portafoglio medio.
“Nei primi anni Duemila si diceva il portafoglio minimo del consulente doveva essere sui 5 milioni, ora si è arrivati a 10 milioni e ci si muove verso i 15”, ha dichiarato Duccio Marconi, direttore centrale consulenti finanziari di Mediobanca Premier, intervenuto il 9 aprile al Salone del Risparmio, “va da sé che più il settore diventa competitivo e riduce i suoi margini, più pone un problema di natura economica”.
“Oggi siamo alle soglie di un grosso cambiamento normativo, la Retail investment strategy, e secondo me l’impatto di questa normativa metterà maggiori pressioni”, ha aggiunto Marconi. Ad esempio, il concetto di “Value-for-money sarà micidiale”, ha dichiarato il capo dei consulenti di Mediobanca Premier, “perché bisognerà dimostrare che un prodotto è adeguato… in relazione a determinati benchmark che spingeranno al ribasso la redditività” generata da fondi e polizze.
Secondo Marconi non è realistico, come è avvenuto in passato, sopperire ai margini in calo con una continua crescita del portafoglio medio, perché diventa sempre più difficile “non tanto in termini di masse, ma di numero di clienti che un solo consulente può seguire”.
La spinta normativa della Commissione europea si è mossa dall’assunto che contribuire alla riduzione dei costi dell’investimento da parte degli investitori al dettaglio sarà un tassello importante per aumentare la partecipazione delle famiglie ai mercati dei capitali. Non è una visione particolarmente popolare all’interno dell’industria del risparmio: “Mi sembra che finora si siano focalizzati molto sul tema dei costi, che è un tema importante, ma non penso siano i costi a trattenere gli investitori dal partecipare attivamente al mercato dei capitali”, ha dichiarato il 10 aprile il presidente di Efama e ad di Bnp Paribas Am, Sandro Pierri. Nonostante un parziale annacquamento della Ris da parte della commissione economica del Parlamento europeo, il tema della compressione dei margini collegata alle normative in arrivo continua a ricorrere nei pensieri di capi delle reti intervenuti nel corso del Salone del Risparmio.
Là dove c’è il maggior potenziale di crescita
L’imperativo è che “bisogna crescere, la raccolta netta è infatti il primo driver del nostro sistema di incentivazioni”, ha dichiarato Fabio Cubelli, condirettore generale di Fideuram Intesa Sanpaolo Private Banking, “il settore cresce, con un +27% in quattro anni… anche se poi bisogna saper coniugare la quantità alla qualità e se questo non avviene ci troviamo a volte a dover risolvere il contratto: il messaggio che inviamo a tutta la nostra rete è di mantenere uno standing adeguato”.
Fornire più servizi ai clienti in grado di valorizzare al meglio il tempo e le risorse della rete di consulenza è, dunque, una delle tendenze trasversali del settore, anche se si fa fatica ad ammettere se questa strategia avrà contraccolpi peggiorativi sul servizio fornito ai clienti “più piccoli”. A margine di una delle conferenze del Salone, uno dei protagonisti del settore ha dichiarato a We Wealth che il possibile allontanamento del segmento mass market da parte delle reti, è un tema concreto.
Cambiare il nome? Non basta
Secondo Marco Bernardi, Vicedirettore generale reti commerciali canali alternativi e di supporto di Banca Generali, lo spostamento verso il segmento private non riguarda il tentativo di “aumentare” i margini di profitto: “Avendo un numero limitato di ore a disposizione, nel momento in cui i margini scendono le soluzioni possibili sono: trovare clienti mediamente più grandi, oppure, e non lo escludo visto che lo stiamo studiando, cercare modelli più guidati dalla tecnologia per gestire in modo più industrializzato il cliente di segmento affluent”, ha dichiarato Bernardi. Il fenomeno dei rebranding, corteggiando in modo più specifico la clientela private, si muovono verso la prima delle due soluzioni. Ma cambiare insegne e biglietti da visita non basta se, nella sostanza, non cambia anche il resto, ha affermato il capo della direzione commerciale di Zurich Bank, Federico Gerardini: “Cambiare nome non è sufficiente, sarebbe troppo facile: i clienti più patrimonializzati giudicano in modo esigente il servizio che ricevono”, ha dichiarato Gerardini, mettendo in luce come agganciare alla consulenza i servizi come la pianificazione successoria siano strategie vincenti per la figura del consulente patrimoniale a tutto tondo.
“Non so se, dal momento che tutte le reti si stanno muovendo in questo ambito, il private banking venga visto come una panacea, sicuramente è un modello di servizio vincente, con una soddisfazione della clientela che Aipb ha rilevato all’89%, al massimo storico”, ha affermato a We Wealth il presidente dell’Associazione italiana del private banking, Andrea Ragaini, per il quale non ci sarebbe una relazione diretta fra la compressione dei margini del settore e l’ascesa del private nelle priorità di servizio. Se questo avviene, ha dichiarato il presidente di Aipb, è perché in Italia una parte significativa del mercato, corrispondente a patrimoni, pari a 300 miliardi di euro, non è ancora servita dal settore.