Prima la natura nei suoi elementi costituenti. Poi la crescita, il potere, il disordine, lo spazio e il consumo. Ma anche la speranza. Fino al soggetto che vive la prima (sfruttandola sempre più), sperimenta i secondi (piegandoli ai suoi fini sempre più) e si augura la terza (dimenticandosene sempre più): l’umanità. È questo il tema della decima edizione del Prix Pictet, oggi riconosciuto come il più importante e prestigioso premio fotografico internazionale dedicato alla sostenibilità, il cui obiettivo è indagare l’umanità nella sua accezione più scomoda, quella protagonista di una storia di conflitto e disperazione, più che di successi, cura, amore e convivenza.

La X edizione del Prix Pictet arriva a Verona
Vi sono così scatti che parlano dei profondi cambiamenti della vita delle popolazioni indigene, come quelli di Ragnar Axelsson. O immagini che dipingono la realtà ultraterrena delle isole a largo della costa dell’Iran, opera di Hoda Afshar. Ma anche le fotografie di Yael MartÍnez, forate in seguito alla scomparsa dei familiari, vittime della violenza che tinge di rosso lo stato messicano di Guerrero. Oltre a quelle di Gauri Gill (in copertina), riconosciuta come vincitrice da una giuria indipendente di 300 esperti, che ha saputo raccontare la gioia, il dolore e la tenerezza che trasuda da tutti i pori di chi lotta per la sopravvivenza in una regione remota e desertica come quella del Rajasthan, in India.

Questi e tutti gli scatti dei 12 finalisti arriveranno a Verona per una tappa eccezionale del tour mondiale del Prix Pictet Human (l’unica in Italia). Un appuntamento imperdibile e da segnare in agenda per tutti gli appassionati di fotografia d’autore: la mostra sarà visitabile (gratuitamente) dall’8 febbraio al 2 marzo 2025 presso gli spazi del Palazzo della Gran Guardia in piazza Brà. Il Prix Pictet torna a Verona (dopo il 2021) in un anno speciale per il Gruppo, che festeggia i dieci anni di presenza in città.

L’importanza di agire a tutela del patrimonio naturale e umano
Nato nel 2008 per volontà del Gruppo Pictet, tra i principali gestori patrimoniali indipendenti d’Europa, il Prix Pictet si pone l’obiettivo di fare leva sulla forza del mezzo fotografico per richiamare l’attenzione mondiale su questioni di cruciale importanza legate alla sostenibilità globale, dedicando ogni ciclo a un tema che racconta il credo a 360 gradi del Gruppo nei confronti della sostenibilità come principio guida nella gestione degli investimenti (e non solo).
Che “oggi […] ci impone di agire a tutela del patrimonio naturale e umano” commenta Alessandra Losito, Country head Italy di Pictet Wealth Management. “Il Prix Pictet è uno strumento eccellente per testimoniare gli inarrestabili cambiamenti in atto e sensibilizzare l’opinione pubblica sull’urgente necessità di agire in favore di un mondo più sostenibile”, portati anche avanti dalla tematiche ambientali che da più di vent’anni in Pictet sono protagoniste di soluzioni di investimento dedicate.

La novità dell’anno, il premio People’s Choice Award
Novità del decimo ciclo del Prix Pictet è l’assegnazione del premio People’s Choice Award, che consente al pubblico di votare la propria serie di scatti preferiti all’interno della rosa dei finalisti. Quest’anno, a incantare i votanti è stato il progetto del fotografo colombiano Federico Ríos Escobar, che ritrae la straziante realtà dei bambini sudamericani figli dei migranti che intraprendono l’insidioso viaggio nel Corridoio del Diarén (Diarén Gap), un arduo passaggio nella giungla quasi impossibile da attraversare al confine tra la Colombia e Panama, ma unico ponte terreno tra il Nord e il Sud America (e unica speranza di una nuova vita per chi decide di attraversarlo).

Gauri Gill, la vincitrice del X ciclo del Prix Pictet
Vincitrice del decimo ciclo del Prix Pictet è invece Gauri Gill (nata nel 1970), tra le più stimate e apprezzate fotografe indiane. La sua opera costringe a riflettere sulle difficoltà di una vita vissuta nella povertà più profonda, testimonianza lucida e cruda di un’umanità dimenticata. Riportiamo di seguito e per esteso il commento che accompagna il suo progetto.
“Nell’aprile del 1999 partii per fotografare le scuole di villaggio nel Rajasthan. Alcuni mesi prima avevo assistito a una ragazza picchiata dal suo insegnante e quell’episodio mi aveva tormentata a lungo”.
“Tornata a Delhi, proposi un reportage al settimanale politico per cui lavoravo su cosa significasse essere una ragazza in una scuola di villaggio, ma mi fu detto che la mia idea mancava di un news peg, ovvero un aggancio d’attualità, o di un argomento con cui i lettori cittadini potessero identificarsi. Decisi allora di prendermi un mese di aspettativa e di trascorrerlo nelle aree rurali del Rajasthan. Iniziai viaggiando da scuola a scuola, attraversando lo stato e visitando i distretti di Jaipur, Jodhpur, Osiyan, Bikaner, Barmer, Phalodi, Baran e Churu, fotografando soprattutto nei villaggi”.
“Nella città di Lunkaransar visitai una scuola sperimentale per bambini nomadi della comunità Jogi. Qui incontrai Urma e Halima, che mi invitarono a casa loro e mi presentarono Bhana Nathji, padre di Urma e rispettato leader della comunità. Divenne mio amico e saggio consigliere fino alla sua scomparsa nel 2019. Seduti nella loro casa di fango, sul letto sotto cui si annidavano serpenti, camaleonti e un gallo, circondati dai fratelli di Urma e dai loro cani da caccia, Bhana Nathji mi invitò a viaggiare con loro”.
“Nel distretto di Barmer, persa, mi imbattei in un gruppo di donne avvolte in scuri scialli ajrak, raccolte attorno al corpo senza vita di una bambina. Sembravano intimidatorie, ma una di loro, Izmat, mi afferrò le mani e, con la fermezza di chi aveva conosciuto una grande sofferenza, mi esortò a tornare a Delhi e raccontare al mondo i problemi della gente di Barmer. Mi chiese il mio indirizzo e, in lettere dettate a conoscenti alfabetizzati, continuò a implorarmi di tornare. Lo feci. Guardare da vicino le scuole mi aprì un intero mondo. Compresi che la scuola era solo il microcosmo di una realtà complessa, di cui non sapevo nulla, avendo vissuto per lo più nelle città”.
“Nei miei numerosi viaggi nel Rajasthan occidentale, ritrovando sempre le stesse persone e gli stessi luoghi, ho assistito all’intero spettro della vita: anni di siccità e un anno di monsoni eccezionali (quando Barmer si trasformò in Kashmir), tempeste di polvere capaci di far venire la febbre e un’alluvione così grave da costringere Urma a ricostruire la sua casa. Ho seguito il ciclo agricolo, le migrazioni, gli uomini che si spostavano per lavorare in Gujarat e Maharashtra, i programmi Food for Work, il MNREGA e altri progetti governativi, i viaggi dei nomadi, le epidemie, la malaria cerebrale, la tubercolosi, gli ospedali al collasso e le scuole con personale insufficiente. Ho visto persone morire per il morso di un serpente, per incidenti, per essere state bruciate vive a causa di una dote ritenuta insufficiente, per vecchiaia. Ho assistito alla morte di un cammello in un anno ricordato come “l’anno della morte del cammello”, ma anche a nascite, matrimoni, matrimoni infantili, usurai, dharnas, elezioni nazionali e panchayat, festività, faide tramandate da generazioni, celebrazioni, preghiere… e, attraverso tutto questo, sono stati i miei amici a guidarmi”.
“Vivere nella povertà e senza terre nel deserto significa dipendere in modo ineludibile da se stessi, dagli altri e dalla natura. Le difficoltà sono estreme, gli elementi implacabili, e la vita è tanto fragile quanto diffusi sono gli scherzi. Dormire sulle dune gelide d’inverno, con solo un telone e vecchie coperte pesanti, significa doversi rannicchiare tutti insieme e respirare sotto la coperta, insieme ai cani. Nel groviglio, non si è mai del tutto certi di cosa sia cosa, né di chi sia chi”.

In copertina: Gauri Gill, Jannat, Barmer, 1999– ongoing. Courtesy dell’artista e James Cohan, New York (dettaglio)