La pandemia ha accelerato un trend di già in atto che si preparava alla domanda emergente dei Gen Z, più attenti alla sostanza e alla difesa di ambiente e società. “Le persone vorranno vestiti che durano”, per dirla con Giorgio Armani
La rivoluzione dell’industria passa da cinque pillar: la ridefinizione del purpose del brand, il disaccoppiamento della crescita dai volumi, la tracciabilità della supply chain, la massimizzazione dei committment ambientali e sociali e la creazione di valore economico dalla sostenibilità
La Gen Z compra impacting
Non che non fosse già scritto nelle cose: la pandemia ha solo accelerato un trend già iniziato perché i consumatori del futuro, segnatamente la Gen Z dei nati dopo il 1997, premieranno sempre di più i brand che hanno un impatto positivo sull’ambiente e sulla società, rischiando di abbandonare quelli che non prendono una posizione e non agiscono su questi temi. “Molti marchi del lusso si sono mossi con dichiarazioni d’intenti – spiega Claudia D’Arpizio, Global Head del Vertical Moda & Lusso di Bain & Company e co-autrice del Report – ma la partità si giocherà nei prossimi dieci anni in cui sarà evidente se saranno riusciti a mantenere questi impegni e a realizzare l’obiettivo a lungo termine di un business sostenibile e redditizio. Un restyling dei modelli non sarà sufficiente: i brand che vorranno avere successo nel 2030 dovranno iniziare già da oggi a re-immaginarsi profondamente, effettuando un cambiamento innanzitutto culturale”.
L’emergere delle purpose-brand
La pandemia ha obbligato le aziende a gettare le basi per un cambiamento a lungo termine, convincendo i brand che la crescente domanda dei consumatori per beni di lusso più sostenibili – in parte guidata dal desiderio di prodotti più durevoli e di qualità superiore – non fosse soltanto una moda, ma una rivoluzione strutturale.
Una rivoluzione che passa da cinque pillar: la ridefinizione del purpose del brand, il disaccoppiamento della crescita dai volumi, la tracciabilità della supply chain, la massimizzazione dei committment ambientali e sociali e la creazione di valore economico dalla sostenibilità.
Il primo punto è chiaro: non basterà produrre lusso, lo si dovrà fare per uno scopo. Via i lustrini, resta la sostanza. Inoltre, spiega D’Arpizio, “le aziende più virtuose saranno quelle che riusciranno a scindere la crescita del business dalla crescita dei volumi, tramite l’adozione su scala di modelli circolari come il second hand e il rental”. Nel 2030 la quota di mercato del second-hand potrebbe toccare anche quota 20% del fatturato, con un incremento del margine di profitto del singolo prodotto del 40%. In questo scenario, anche il noleggio di capi e prodotti potrebbe arrivare a pesare il 10% del fatturato.
Magazzini ottimizzati e supply chain corta
Intelligenza artificiale e big data saranno la chiave per rendere possibile la tracciabilità della supply chain e ottimizzare la logistica. Con questi strumenti sarà possibile anche implementare la capacità di ridurre le eccedenze nei magazzini, favorendo gli ordini e offrendo al cliente, nel processo, più opzioni di personalizzazione. I brand leader nel 2030 saranno inoltre quelli che sceglieranno di internalizzare i processi di rivendita, dopo aver sperimentato le piattaforme multimarca di terze parti.
La stessa supply chain – come succederà in effetti in molti settori industriali – potrebbe essere maggiormente localizzata e più corta. Un ecosistema di questo tipo potrebbe essere fonte di resilienza.
Il valore della sostenibilità
Infine, sarà cruciale puntare sui temi dell’inclusività e avere la capacità di adattare le misure di sostenibilità globali alle condizioni specifiche di ciascun mercato locale. La sostenibilità non deve rappresentare più un costo ma un valore, sviluppando un modello economico integrato. L’adozione di nuove forme di reporting e di metriche all’avanguardia potrebbero effettivamente aiutare il brand a dimostrare che la sostenibilità ha un impatto economico, e che la sua trasparenza alimenta la fiducia degli investitori su scala globale.
“Ciò che è imprescindibile”, conclude Claudia D’Arpizio, “è un approccio alla sostenibilità di tipo olistico: dovrà abbracciare consumatori, dipendenti, fornitori, comunità e tutte le aree aziendali. Solo così i brand potranno trasformare con successo le dichiarazioni di intenti in azioni quantificabili, e queste tradursi in un cambiamento significativo e, nel tempo, in un ritorno economico”.
Tutto questo servirà a soddisfare la domanda del cliente luxury che, nel 2030, assocerà il prodotto lusso a qualcosa di più simile all’antico concetto greco di kalokagathia, “ciò che è bello e buono”, per le persone e per il pianeta.