Fra i principi fondamentali della Repubblica Italiana, la nostra Costituzione include la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (art. 9).
La giurisprudenza della Corte costituzionale ha da tempo chiarito come il precetto dell’art. 9 abbia un valore primario all’interno del nostro ordinamento, cioè insuscettibile di essere subordinato a qualsiasi altro interesse, compresi quelli economici (Corte cost., 27 giugno 1986, n. 151).
D’altronde, è stata la nostra stessa Costituente ad aver collocato la proprietà privata ben oltre la cornice dei principi fondamentali, delineandola all’articolo 42 – ossia nella parte dedicata ai rapporti economici – ed evidenziandone marcatamente i limiti (“La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”).

La previsione di una funzione sociale della proprietà privata costituisce dunque il fondamento attraverso il quale la pubblica amministrazione può imporre un sacrificio ai proprietari – purché sempre ragionevole e in modo proporzionato – al fine di realizzare un interesse pubblico primario e sovraordinato quale la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale.
I complessi rapporti fra pubblico e privato nell’ambito dei beni culturali
Il tema è tutt’altro che secondario e richiede particolare sensibilità argomentativa, stante la difficoltà di provare l’esistenza di un effettivo bilanciamento fra gli interessi pubblici e privati. Questi ultimi si ritrovano infatti troppo spesso quale parte debole del rapporto nonostante gli ingenti investimenti – di natura personale e/o economica – effettuati al fine di divulgare l’arte in tutte le sue rappresentazioni.
Si pensi, ad esempio, al tema della circolazione internazionale delle opere d’arte. Nel momento in cui un quadro viene dichiarato di interesse culturale particolarmente importante (o perfino eccezionale), il suo proprietario non perde soltanto il diritto di trasferirlo oltre i confini nazionali in via definitiva ma vede altresì fortemente ridimensionata la sua signoria sul bene.
I beni culturali sono infatti soggetti ad una particolare disciplina finalizzata alla loro tutela, la quale include, a titolo esemplificativo e non esaustivo, il potere dei soprintendenti di procedere in ogni tempo, con preavviso non inferiore a 5 giorni (salvo i casi di estrema urgenza) ad ispezioni volte ad accertare l’esistenza e lo stato di conservazione o di custodia degli stessi (art. 19 del D.lgs. 42/2004 ossia il Codice dei beni culturali e del paesaggio).
Il proprietario ha altresì l’obbligo di richiedere tempestivamente l’autorizzazione per sottoporre il bene notificato ad interventi di restauro o per richiederne lo spostamento, anche temporaneo, (fattispecie che include anche le ipotesi di trasloco da un’abitazione all’altra) (art. 21 D.lgs. 42/2004).
Le disposizioni in materia trasferimento della proprietà sul bene vincolato
A questo si aggiungono le disposizioni in materia trasferimento della proprietà sul bene vincolato, per le quali il proprietario alienante ha altresì l’obbligo di denunciare (ossia di comunicare all’amministrazione l’esistenza de) gli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà o, in caso di beni culturali mobili, la detenzione (art. 59, D.lgs. 42/2004). Viene inclusa in tale fattispecie anche la successione mortis causa.
Non solo. Il proprietario alienante deve altresì prendere in considerazione l’ipotesi che il Ministero (ovvero gli altri enti pubblici territoriali interessati) possano acquistare in via di prelazione, entro 60 giorni dalla denuncia, i beni culturali alienati a titolo oneroso o conferiti in società, rispettivamente, al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione o al medesimo valore attribuito nell’atto di conferimento. Giova sottolineare che, qualora la denuncia sia stata omessa, presentata tardivamente oppure risulti incompleta, la prelazione può essere comunque esercitata nel termine di 180 giorni dal momento in cui il Ministero ha ricevuto la denuncia tardiva o ha comunque acquisito tutti gli elementi costitutivi della stessa.
La violazione di tale obbligo determina la nullità relativa dell’atto traslativo (art. 164 D.lgs. 42/2004).
Il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale
La giurisprudenza amministrativa si è interrogata in più occasioni sull’effettiva estensione del vincolo apposto su un determinato bene mobile e/o immobile. In particolare, ci si è chiesti se una determinata dichiarazione di interesse culturale potesse non soltanto vincolare il bene in sé ma altresì estendersi alla sua destinazione d’uso; si pensi, ad esempio, ad un locale storico che svolga la funzione di luogo di ritrovo e convivialità della vita culturale di una determinata città o perfino nazione.
Prima del 2023, gli orientamenti giurisprudenziali erano essenzialmente due (a cui si ne è aggiunto recentemente un terzo): 1. il primo negava l’ammissibilità del vincolo culturale di destinazione d’uso tout court; 2. il secondo ammetteva la possibilità in circostanze eccezionali e circoscritte, correlate alla particolare trasformazione del bene con una sua specifica destinazione e al suo stretto collegamento per un’iniziativa storico-culturale di rilevante importanza; 3. il terzo e più recente, apriva invece alla possibilità dell’imposizione di un vincolo culturale di destinazione d’uso, previa adeguata esposizione delle ragioni sottostanti.
Con l’Adunanza Plenaria n. 5 del 13 febbraio 2023, il Consiglio di Stato ha infine accolto e consolidato il terzo dei tre precedenti orientamenti, stabilendo che “il vincolo di destinazione d’uso del bene culturale può essere imposto quando il provvedimento risulti funzionale alla conservazione della integrità materiale della cosa o dei suoi caratteri storici o artistici, sulla base di una adeguata motivazione, da cui risulti l’esigenza di prevenire situazioni di rischio per la conservazione dell’integrità materiale del bene culturale o del valore immateriale nello stesso incorporato”.
Ciò può includere altresì le espressioni di identità culturale collettiva, “non solo per disporne la conservazione sotto il profilo materiale, ma anche per consentire che perduri nel tempo la condivisione e la trasmissione della manifestazione culturale immateriale, di cui la cosa contribuisce a costituirne la testimonianza”.
I vincoli
Il vincolo di destinazione d’uso non sfugge ai requisiti sanciti dalla normativa in materia di provvedimenti amministrativi (in primis la Legge 241/1990). Lo stesso dovrà quindi basarsi su un’adeguata motivazione circa la sussistenza dei valori culturali, estetici e storici tutelabili.
Il caso trattato dall’Adunanza Plenaria sopra citata verteva sul famoso ristorante “il Vero Alfredo” fondato nel 1908 in via della Scrofa, a Roma, e trasferitosi nel 1950 nella sede di Piazza Augusto Imperatore.
In particolare, con il decreto n. 50 del 13 luglio 2018, l’allora Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva dichiarato il ristorante denominato “Il Vero Alfredo”, con le opere di Gino Mazzini e gli elementi di arredo conservati all’interno, di interesse particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), del D.lgs. 42/2004 e in considerazione dei principi enunciati dall’art. 7 bis (i.e., le “Espressioni di identità culturale collettiva”), sottoponendolo, pertanto, a tutte le disposizioni di tutela previste per i beni culturali.
Dopo aver tuttavia acclarato l’ammissibilità dell’apposizione di un vincolo di destinazione come modalità d’uso di un bene immobile, il Consiglio di Stato ha contestualmente precisato come lo stesso non possa in alcun caso imporre un obbligo di esercizio o di prosecuzione dell’attività commerciale e imprenditoriale, né attribuire una sorta di “riserva di attività” in favore di un determinato gestore, al quale non può essere attribuita alcuna rendita di posizione. Un tale provvedimento “sarebbe illegittimo per sviamento [di potere n.d.a.] ove venisse apposto, qualora mirasse non alla conservazione ed alla salvaguardia della res in cui è incorporato il valore storico culturale particolarmente importante, ma a far continuare la prosecuzione di una specifica attività commerciale o imprenditoriale (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 10 ottobre 2002, n. 5434): solo una espressa disposizione di legge potrebbe attribuire all’Amministrazione tale ulteriore potere”.
Il caso dell’Antico Caffè Greco di Roma
I principi enunciati dal Giudice amministrativo hanno trovato speculare consolidamento in sede civile, nel caso dell’Antico Caffè Greco di Roma.
Con la sentenza n. 19350 del 15 luglio 2024, la terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha recentemente deciso una controversia vertente sull’Antico Caffè Greco, locale storico sito in via dei Condotti a Roma.
In particolare, l’Ospedale Israelitico – ente proprietario dell’immobile – aveva intimato licenza per finita locazione (i.e., lo sfratto) alla Antico Caffè Greco S.r.l., società titolare dell’omonimo locale. Quest’ultima aveva prontamente contestato la domanda avversaria, sollevando l’esistenza un vincolo di natura amministrativa e (l’esigenza di) tutela dell’Antico Caffè Greco quale bene di interesse storico, alla luce del decreto del Ministero della pubblica istruzione del 23 luglio 1953.
In breve, la società resistente argomentava che l’esistenza del suddetto vincolo avrebbe impedito alla proprietaria dell’immobile di ottenere lo sfratto, dato che “il tenore di quel decreto era tale da non lasciare alcun dubbio in ordine all’intenzione dell’Amministrazione statale all’epoca competente di apporre il vincolo non solo sui locali (immobile) e sugli arredi, cimeli, decorazioni (mobili), ma anche sulla licenza di esercizio; di talché uno sfratto per finita locazione non avrebbe potuto determinare la cessazione dell’attività del conduttore, anch’essa tutelata”.
Tesi non condivisa dai Giudici della Cassazione i quali hanno chiarito che la portata del vincolo culturale imposto sui locali dell’Antico Caffè Greco (e sulla licenza di esercizio) debba essere invece intesa come l’obbligo del proprietario di non sottrarre il bene, con gli annessi arredi e cimeli storici di sua pertinenza, alla destinazione a suo tempo imposta dall’Autorità amministrativa (1953).

Il caso, “L’Antico Caffè Greco non può che avere quella destinazione”
Pertanto, “Il Caffè Greco, in quanto bene immobile carico di oltre due secoli di storia e di vita artistica e culturale della città di Roma, collocato nella centrale Via Condotti, non può che avere quella destinazione; ma non è giuridicamente prospettabile che simile vincolo si traduca nell’impossibilità, per il locatore, di intimare ad un determinato conduttore la licenza per finita locazione, cioè nell’obbligo di proseguire ad oltranza la locazione con un preciso soggetto”.
Ne consegue che il locale deve restare adibito alla funzione di caffè (storico) con annessi arredi, cimeli e decorazioni.
Lo scrivente non può esimersi dal rilevare tuttavia i paradossi di tale scelta (incidentalmente riconosciuti dalla stessa Cassazione).
Da un lato, infatti, anche qualora gli arredi ivi presenti non fossero di proprietà dell’Ospedale Israelitico ma della Antico Caffè Greco S.r.l., gli stessi non potrebbero essere rimossi dai locali vincolati ma potrebbero far sorgere al più il diritto del relativo proprietario ad un indennizzo per il loro valore (ai sensi degli artt. 1592 e 1593 c.c. in materia di miglioramenti realizzati dal conduttore in materia di locazione).
Dall’altro, la circostanza che chiunque accettasse il fardello di mantenere la tradizione dell’Antico Caffè Greco S.r.l. al posto del suo titolare, avrebbe l’obbligo di proseguire l’attività nel rispetto dei segni distintivi (quali l’insegna del Caffè) al fine di evitare il possibile compimento di atti di concorrenza sleale, non potendo quindi fregiarsi degli stessi.
Insomma, i beni vincolati culturalmente da una destinazione d’uso avrebbero più bisogno di un gestore che di un imprenditore.