Invero la mancanza di posti letto nelle terapie intensive (soprattutto nella fase più acuta della pandemia), la cronica penuria di personale medico e paramedico, unitamente alla scarsità di materiale di protezione degli stessi, hanno messo a nudo tutta la fragilità del sistema sanitario.
Proprio per incentivare tali erogazioni liberali, il Legislatore ha introdotto una norma ad hoc, rappresentata dall’art. 66 del Decreto Cura Italia, la quale prevede delle agevolazioni, sia per persone fisiche che per imprese, le quali effettuino erogazioni liberali – come si apprende dalla relazione illustrativa – “volte a fronteggiare l’evolversi della situazione epidemiologica in Italia causata da Covid-19”.
Ebbene, tali agevolazioni si estrinsecano come segue:
- per le persone fisiche: in una detrazione dall’imposta lorda sul reddito pari al 30% dell’erogazione liberale, fino a un massimo di 30.000 euro: per cui l’importo massimo della donazione agevolabile risulta pari a 100.000 euro;
- per le imprese: rinviando all’art. 27, L. 133/99, le erogazioni sono interamente deducibili dal reddito di impresa. Inoltre non sono considerate operazioni estranee all’esercizio di impresa, per cui non concorrono alla formazione dei ricavi.
Già all’indomani della pubblicazione del suddetto art. 66, ci si è chiesti se le agevolazioni riguardassero altresì l’Imposta sul Valore Aggiunto, con conseguente disapplicazione della medesima.
Nel silenzio della norma, si era espressa in un primo momento l’Agenzia delle Entrate mediante la Circolare 3 aprile 2020, n. 8/E, con la quale era stata ammessa la facoltà di applicazione dell’art. 6, comma 15, Legge 133/99 (in base alla quale le cessioni gratuite di beni sono assimilate alla loro distruzione, con conseguente disapplicazione dell’imposta e detrazione da parte del donante). Pur trattandosi di un’apertura da parte dell’Amministrazione finanziaria, la stessa non appariva del tutto convincente, giacché non poteva applicarsi a tutte le donazioni, bensì unicamente a quelle che presentavano i requisiti oggettivi e soggettivi di cui al suddetto art. 6 (rappresentate nella fattispecie da cessioni gratuire di prodotti alimentari e farmaceuitici non più commercializzabili, effettuate nei confronti di determinati enti no profit), con conseguente limitazione della portata della norma agevolativa.
Tale situazione è stata in parte risolta dalla conversione in legge del Decreto Liquidità (n. 23/2020) – avvenuta con Legge 5 giugno 2020, n. 40 – la quale ha inserito il comma 3 – bis, nell’ambito dell’art. 66 del Cura Italia, prevedendo che gli acquisti dei beni successivamente ceduti a titolo di erogazione liberale ex art. 66, si considerano effettuati nell’esercizio dell’attività di impresa o professione, con conseguente detraibilità dell’Iva secondo le canoniche modalità previste dall’art. 19 del Dpr Iva (n. 633/72).
La novella tuttavia, è entrata in vigore solo il 7 giugno 2020, ragion per cui, in linea di principio, non risulterebbe applicabile a tutte le donazioni avvenute fino a quel momento, ossia nei mesi cruciali e più bui della pandemia che ha afflitto il Paese.
Lo spirito della norma porterebbe a interpretare una applicazione retroattiva della novella (lo si può denotare dalla medesima relazione illustrativa al Cura Italia: “il presente decreto mobilita tutte le risorse necessarie per fronteggiare l’emergenza collegata alla diffusione del virus Covid-19, garantendo un’adeguata protezione di personale, strumenti e mezzi al sistema sanitario, alla protezione civile ed alle forze di polizia”). Ragionando diversamente, d’altronde, si creerebbe un’intollerabile disparità di tratamento tra le donazioni avvenute prima e dopo la fatidica data del 7 giugno 2020.
Sul punto, un chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate (che magari estenda l’efficacia retroattiva al 30 gennaio 2020), sarebbe quanto meno auspicabile.
Altro punctum dolens, da cui risulta afflitta la norma in esame, è rappresentato dal richiamo al DM 28 novembre 2019 ad opera dell’art. 66, comma 3.
Tale norma, in breve, prevede che, qualora il donante ceda gratuitamente apparecchiature sanitarie che non rappresentano né beni strumentali, né beni che formano oggetto dell’attività di impresa, di valore superiore a 30.000 euro (oppure qualora, in ragione della natura del bene stesso non sia possibile documentarne il valore sulla base di criteri oggettivi), debba “acquisire una perizia giurata che attesti il valore dei beni donati, recante data non antecedente a 90 giorni il traferimento del bene” (art. 4, comma 4, D.M. cit).
Orbene, si evince chiaramente come tale incombenza, rappresenta un forte deterrente all’utilizzo della norma, da parte di potenziali donatori. Invero, questi ultimi, dopo aver acquistato le apparecchiature mediche, dovranno: (i) ricercare un perito esperto nello specifico settore; (ii) far redigere (a proprie spese) una perizia di stima sul bene oggetto di donazione; (iii) far asseverare la perizia in Tribunale (con le note tempistiche dei medesimi, soprattutto a seguito della parziale chiusura delle cancellerie dovuta all’emergenza Covid-19). Sul punto, nessuna indicazione “semplificatrice” è stata fornita dai chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate fino ad oggi pubblicati.
Nonostante il tortuoso percorso normativo finora descritto, come accennato in premessa, le donazioni non sono di certo mancate durante tutto il periodo emergenziale. Ad oggi, solo per citare la Regione Lombardia, si annovera un totale di quasi 132 milioni di Euro raccolti, tra donazioni in denato e in natura (fonte: sito Regione Lombardia).
Proprio in vista del prossimo inverno, con il possibile aumento dei contagi (aumento che, come tristemente noto, si è già registrato nel mese di agosto appena trascorso), aumenteranno giocoforza le necessità dei presidi ospedialieri e del relativo personale medico: necessità alle quali il bilancio statale (già fortemente compromesso) difficilmente potrà fare fronte.
Di qui una spinta decisiva non può che addivenire dalle donazioni dei privati che, tuttavia, devono poter essere messi in grado di farvi fronte, senza inutili appesantimenti burocratici che si pongono in antitesi con lo spirito medesimo della norma.