In un’epoca governata dal culto dell’iper-produttività, dove ci viene insegnato che il tempo del lavoro deve essere completamente separato dal tempo “libero” – quello da dedicare, nelle poche ore che si riesce a ritagliare per sé, al benessere e alla cultura – esistono e, anzi, resistono, delle realtà che vanno nella direzione opposta, che guardano al passato e al mondo dell’arte per rispondere in maniera innovativa alle esigenze del mercato e rendere felici e soddisfatti i propri dipendenti.
Bonotto: storia di una manifattura tessile fuori dagli schemi
Un eccellente esempio, in tal senso, è Bonotto S.p.A., una delle più importanti manifatture tessili attive in Italia, con sede a Colceresa (via Louvigny n.29), in provincia di Vicenza. Fondata nel 1912 per la produzione di cappelli di paglia, Bonotto è cresciuta nel corso del ’900 fino a diventare un’industria verticale a ciclo completo, con più siti produttivi e oltre 200 maestri d’arte impiegati al suo interno, rappresentando oggi uno dei più riusciti esempi di unione tra impresa, arte e design. Trait d’union tra questi elementi è stata la passione collezionistica dell’imprenditore Luigi II Bonotto che dagli anni ’70 in avanti ha dato vita alla più grande e completa raccolta di opere d’arte realizzate da artisti afferenti ai movimenti Fluxus e della Poesia Sperimentale, continuamente ospitati all’interno delle sedi produttive dell’azienda (dal 2016 partecipata dal Gruppo Zegna).
La fabbrica come casa: il modello orizzontale di Bonotto
“Marcel Duchamp, che ogni tanto giocava a scacchi con mio padre – racconta Giovanni Bonotto, figlio di Luigi e oggi alla guida dell’azienda insieme al fratello Lorenzo – lo aveva convinto che l’arte e la vita fossero la stessa cosa; anzi, che la vita stessa fosse un’opera d’arte. Mio padre fece suo questo concetto a tal punto che iniziò a ospitare continuamente artisti in azienda, dando vita a una fabbrica orizzontale”. La stessa struttura architettonica di Bonotto richiama e sottolinea tale concetto, apparendo all’esterno come un’enorme villa contadina, pur custodendo un impianto industriale al suo interno. Ma questa idea non si limita solo all’aspetto della Fabbrica, allargandosi alla governance interna: “mio padre aveva messo sulla stessa linea se stesso, la sua famiglia, gli artisti, i fornitori, i dipendenti e gli operai”.

Artisti in azienda: una rivoluzione silenziosa
“Tutte le attività che avevano luogo lì dentro e tutte le persone che lo abitavano erano uguali, allo stesso livello. Gli artisti che venivano a fargli visita risiedevano in casa con lui e vivevano la Fabbrica con lui. Mio padre metteva a loro disposizione le maestranze delle nostre officine (dal falegname all’elettricista, fino all’addetto al tornio) e tutte queste competenze incuriosivano tantissimo questo gruppo di artisti che si stava interessando a come cambiare l’arte contemporanea, passando dalla pittura all’azione. Grazie a ciò che avevano a disposizione all’interno della Fabbrica, questi non usavano più la tela, ma davano vita a nuove forme d’arte. L’officina li ha aiutati molto a costruire i propri ‘strumenti del mestiere’.” Una reciproca contaminazione, dunque, che ha permesso a tali innovativi artisti di dar vita a progettualità e lavori oggi riconosciuti dalla critica come pratiche fondanti della storia dell’arte del XX secolo. Bonotto contribuisce così alla nascita della Video Art ospitando Nam June Paik – di cui si conservano qui molti lavori – e della Poesia Visiva con Giuseppe Chiari e Ben Vautier, che prendevano in Fabbrica tutto ciò che trovavano, usandolo come supporto per le loro installazioni.
Ma se gli artisti erano così entusiasti nel poter osservare e partecipare con i propri contributi sperimentali al lavoro della manifattura tessile, viene invece spontaneo chiedersi quale fosse la reazione dei lavoratori e degli stessi figli di Luigi, cresciuti in mezzo a queste presenze talvolta “ingombranti”. Non a caso, Giovanni non esita nel raccontarci che la consapevolezza dell’unicità dell’azienda di famiglia e dell’importanza di ciò che stava avvenendo davanti ai propri occhi sia arrivata solo gradualmente. Gli aneddoti che la memoria dell’imprenditore possiede al riguardo sono davvero tanti, dalle colazioni con Yoko Ono ai pomeriggi con Joseph Beuys, perché Giovanni ha trascorso gran parte della sua vita a contatto con alcuni tra i maggiori artisti della seconda metà del ‘900.
Dal racconto di Giovanni emerge anche una prima perplessità condivisa con la famiglia e i dipendenti: “noi, che di lavoro siamo tessitori, all’inizio non capivamo la presenza di tutte queste persone un po‘ strane. Avevano sempre domande, pretese d’aiuto, questioni da sottoporci; spesso si mettevano a osservare cosa facessimo e avevamo l’impressione che perdessero tempo, perché noi eravamo concentrati e focalizzati a produrre con precisione e intensità. Avevamo la percezione che fossero quasi come i pensionati che osservano i cantieri!” Poi, però qualcosa è cambiato.

L’arte come leva per reinventare i processi produttivi
“Dal 2009 circa, con la crisi del manifatturiero tessile italiano, le industrie appartenenti a questo settore si sono ridotte drasticamente. In questo periodo, Bonotto non solo è riuscita a sopravvivere, ma addirittura a crescere, e questo perché ci siamo accorti che gli artisti ci avevano regalato quelli che mi piace chiamare ‘gli occhiali della fantasia’. A forza di osservare per anni artisti produrre opere, abbiamo effettivamente compreso come re-inventare i processi produttivi. Questi ‘occhiali’, che abbiamo ereditato dagli artisti, hanno delle ‘lenti’ speciali che ci fanno ideare nuovi modi di lavorare con un processo altrettanto artistico e creativo. Naturalmente, tale procedimento di osmosi con l’arte è stato lento: ci abbiamo messo circa 30 anni per renderci conto che anche noi eravamo dotati di ‘mani intelligenti’ in grado di provare, riprovare e giungere a nuove soluzioni. È nato così tra di noi uno ‘spirito sacro’, che in fabbrica non è comune ma che ci consente di non arrenderci davanti alle difficoltà. Se gli altri pensano che qualcosa sia troppo difficile da fare, da Bonotto c‘è un sistema del tutto diverso dove si riesce a trovare sempre una soluzione creativa ai problemi che si presentano, una soluzione che non è mai dentro modelli preimpostati. In sintesi, potrei dire che per me la Fabbrica era ed è un ambiente sociale e un luogo dove si produce la bellezza. Oltre, naturalmente, a essere una manifattura dove succedono tutte le cose che si immaginano normalmente in un’azienda.”
Oltre a ciò, la consuetudine a convivere con gli artisti, nutrendosi delle loro idee, e l’abitudine a sfruttare sempre il pensiero laterale ha anche permesso a Bonotto di avere una visione operativa del tutto personale e atipica, creando il cosiddetto metodo della “Fabbrica lenta”: un vero e proprio manifesto contro la standardizzazione industriale a basso costo che caratterizza e distingue Bonotto dalla concorrenza. “Questo concetto è certamente un’eredità degli artisti che hanno vissuto e tuttora vivono l’azienda – sottolinea Giovanni. – Come raccontavo prima, intorno ai primi anni Duemila c’è stata una grossa crisi del settore tessile, che si è tradotta nel fallimento e nella chiusura di diversi nostri competitors, anche più grandi di noi. Per questo, in quel periodo ho iniziato a frequentare le aste fallimentari e a visitare le aziende che venivano liquidate. Durante queste visite ho scoperto che erano tutte fabbriche come la nostra, non c’era nessuna differenza. La consapevolezza di esser tutti uguali mi ha portato a fare diversi ragionamenti, a cercare una soluzione ‘creativa’ al problema della produzione in serie. Ho iniziato così a essere attratto da ciò che stava fuori dalla fabbrica, da ciò che è solitamente stipato nei capannoni rustici annessi alle sedi produttive, ma nascosto agli occhi di tutti. Qui ho scoperto un mondo di macchinari a funzionamento meccanico risalenti agli anni ’50-’60, ma dismessi perché molto lenti a produrre. Gli industriali, infatti, spaventati dalle perdite a cui potevano andare incontro utilizzandoli, avevano deciso di investire sulla delocalizzazione e sull’automazione degli apparati produttivi, processo che ha comportato però una fortissima uniformazione. Se queste nuove macchine moderne permettono di fare solo “A”, “B” o “C” separatamente, quelle vecchie avevano la straordinaria capacità di regolare la produzione affinché i risultati “A”, “B” e “C” fossero fusi insieme, ottenendo soluzioni tessili, intrecci e ricami impossibili da realizzare con strumenti sì veloci, ma con impostazioni non modificabili. Ho, quindi, deciso di recuperare tali macchinari – che ci permettono di andare “in deroga” a certi processi – e rimetterli in attività, dando origine a ciò che poi abbiamo chiamato appunto “Fabbrica Lenta”. Per concludere, oltre alla tecnologia 4.0, in Bonotto abbiamo a disposizione degli strumenti vivi che possono essere regolati a piacimento e che tanto ricordano il lavoro artigianale.”
Una collezione d’arte diffusa tra i reparti
Il continuo scambio intellettuale e creativo tra gli industriali e gli artisti ha consentito così all’impresa di crescere in parallelo alla Collezione, oggi gestita, tutelata e valorizzata all’interno di una Fondazione: “ci tengo a sottolineare che la Collezione non è il risultato di un progetto a tavolino di mio padre. Lui ha semplicemente vissuto la propria vita, poi “la storia ha fatto la storia” – racconta Giovanni. – A un certo punto la mole di opere in Fabbrica è diventata ingente e i musei di tutto il mondo hanno iniziato a chiederci in prestito alcuni lavori, che nel frattempo la critica aveva elevato a opere d’arte storicizzate. Capite bene che gestire una tale quantità di richieste era diventato un vero e proprio lavoro e così, nel 2013, abbiamo deciso di istituire la Fondazione Bonotto, ente dove – oltre a Patrizio Peterlini alla direzione – c’è una squadra di persone che si occupa della gestione della Collezione, dalle assicurazioni agli accordi per i prestiti, dagli eventi alle spedizioni.”
Sebbene la raccolta di opere d’arte sia una delle più importanti al mondo per vastità e varietà di opere Fluxus e di Poesia Sperimentale, il lavoro di ricerca, selezione e acquisizione non si è mai interrotto. Sono oltre 24mila i lavori prodotti da un totale di 330 artisti, quasi tutti ospitati in residenza, dal 1970 a oggi. Un numero impressionante di testimonianze artistiche e culturali distribuite all’interno dei 20mila mq dell’azienda, tra uffici, linee produttive e magazzini, che contribuiscono a creare un forte legame concettuale e fisico tra arte e industria. Completamente digitalizzata, la raccolta è visitabile non solo dal vivo, ma anche tramite l’apposito tour virtuale disponibile sul sito web della Fondazione. “La Collezione è di proprietà della famiglia Bonotto, ma la maggior parte delle opere sono collocate in azienda perché lì sono nate. La Fabbrica stessa è un’opera d’arte. La Fondazione è, quindi, inserita fisicamente in azienda: quando si entra all’interno di Bonotto, si è contemporaneamente all’interno della Fondazione e della Fabbrica, la contaminazione è continua.”
Aperta al pubblico e impegnata a proporre una vasta offerta culturale – tra visite guidate, prestiti, seminari, convegni, spettacoli di cinema d’arte, workshop, residenze d’artista, programmi per curatori e pubblicazioni – la Fondazione Bonotto è sinergicamente impegnata con l’azienda per portare avanti nuove ricerche nel mondo dell’arte. Se il filone degli artisti Fluxus si è ormai esaurito, quello della Poesia Sperimentale va ancora avanti e viene seguito con interesse da Bonotto. Tra gli ospiti più recenti, non a caso, ci sono state le poetesse Katalin Landik e Cia Rinne, vincitrici del premio Bernard Heidsieck per le nuove forme di letteratura. A questo si aggiungono nuovi campi d’interesse, come la danza contemporanea e l’interazione tra cultura digitale e arte contemporanea. Secondo Giovanni, infatti: “i nuovi artisti sono sempre più degli ‘scienziati’ che cercano di dare un’immagine visiva alle loro scoperte, lavorando spesso in team con altri creativi.”

Cultura d’impresa come fattore di attrazione
Un heritage di questo calibro ha certo contribuito nel ricevere delle risposte più incoraggianti e positive rispetto agli inizi di quest’avventura collezionistica, contribuendo ad attrarre non solo visitatori, ma anche giovani, nuovi talenti che vogliono entrare in Bonotto proprio per la sua più che unica cultura d’impresa, fondata sul rapporto e l’incrocio tra arte e produzione manifatturiera. Naturalmente, “Bonotto è una comunità fatta di 200 persone e, come in tutte le comunità, c’è una grande eterogeneità di interessi e reazioni – prosegue l’imprenditore. – Ogni tanto capita che i nuovi arrivati facciano un po’ di fatica a comprendere questa sinergia, mentre i dipendenti storici hanno inteso bene il valore aggiunto che questo fattore ci dà. Per loro Bonotto è casa e per noi è molto importante che anche la struttura fisica dell’azienda ricordi proprio quella di una casa, di un luogo dove sentirsi bene e a proprio agio.”
L’arte come parte integrante del processo creativo
Il connubio con l’arte è, in definitiva, parte del DNA di Bonotto, tanto che per i dipendenti non sono previsti specifici momenti di formazione con gli artisti perché questi ultimi vivono, lavorano e producono in Fabbrica, fianco a fianco con i lavoratori. Per tale ragione, l’azienda non appare interessata a utilizzare strumenti o indici per monitorare l’impatto economico dell’arte al suo interno. “Abbiamo già dei risultati tangibili di quanto l’arte sia parte del nostro processo creativo e produttivo – conferma Giovanni. – Senza saperlo, siamo diventati una delle sorgenti creative del settore moda. Vendiamo idee, suggestioni, ricerche, sistemi di rappresentazioni delle superfici, tessuti nuovi che prima non esistevano. Potremmo dire, quindi, che fatturiamo tessuti, ma vendiamo capitale intellettuale. Se non avessimo visto gli artisti che inventavano e creavano, forse le cose sarebbero andate diversamente. Certamente sarebbe stato molto difficile pensare di avere la possibilità, le capacità e l’autorità per inventare noi stessi qualcosa di nuovo.” Non è, quindi, un caso che l’opera a cui è più affezionato Giovanni sia “DREAM”, installazione donata da Yoko Ono nel 2013, quando è diventata madrina della Fondazione: “la scritta di Ono, a caratteri cubitali, svetta al centro della Fabbrica e ci invita ogni giorno a superare le criticità e le difficoltà che incontriamo, insegnandoci a tenere alta la testa e a sentirci a nostra volta dei piccoli artisti che producono ‘a regola d’arte’. ‘DREAM’ vuol dire questo.”
Le fabbriche come musei di domani
In conclusione, se il legame tra passione collezionistica e attività imprenditoriale oggi sembra unire un numero sempre maggiore di aziende in Italia, sono ancora poche quelle che, come Bonotto, possono vantarsi di esser state capofila di questa tendenza e di aver continuato, nei decenni, a portare avanti un progetto di creazione di un’opera totale, in grado di unire cultura, lavoro e vita e a dare nuova linfa al settore artistico italiano, talvolta zoppicante per mancanza di supporto pubblico e privato. Dunque, che ruolo gioca (o dovrebbe giocare) l’impresa nell’attuale contesto dell’arte contemporanea italiana secondo Giovanni Bonotto? “Non è facile rispondere a questa domanda – ci confida alla fine della nostra lunga chiacchierata. – Sinteticamente, direi che i nostri musei sono le fabbriche di ieri, ma le fabbriche di oggi sono i musei di domani.”

Domande frequenti su Bonotto, la collezione d’arte e gli occhiali della fantasia
Bonotto integra arte e cultura nel processo produttivo, superando la rigida divisione tra tempo dedicato al lavoro e tempo libero. Questo approccio mira a creare un ambiente di lavoro più stimolante e a rispondere in modo innovativo alle esigenze del mercato, rendendo i dipendenti più soddisfatti.
L'arte funge da leva per reinventare i processi produttivi di Bonotto. L'azienda utilizza la creatività artistica per stimolare l'innovazione e migliorare l'efficienza all'interno dei reparti.
Bonotto considera la cultura d'impresa un fattore di attrazione per i talenti. L'integrazione dell'arte e della cultura nell'ambiente di lavoro rende l'azienda più attraente per i potenziali dipendenti.
La collezione d'arte di Bonotto è diffusa tra i reparti dell'azienda. Questa esposizione continua all'arte mira a stimolare la creatività e l'innovazione tra i dipendenti durante il processo creativo.
Bonotto immagina le fabbriche come i musei di domani. Questa visione implica una trasformazione degli spazi produttivi in luoghi dove l'arte e la cultura sono parte integrante dell'esperienza lavorativa.