Prologo: chi è che vende le opere d’arte in asta?
Nel mondo dell’arte le aste rappresentano un importante momento di scambio culturale ed economico, ma sollevano questioni delicate riguardo alla riservatezza dei dati relativi a chi vende in asta.
A causa degli obblighi di riservatezza, normalmente nelle aste l’acquirente non conosce l’identità del venditore, e viceversa.
La tutela della privacy del venditore è un diritto fondamentale, sancito con clausole contrattuali e dalla legge, in particolare in Europa il GDPR, nel corso degli ultimi anni divenuta sempre più stringente. Tuttavia, mentre per il venditore è normalmente poco importante conoscere chi si sia aggiudicato l’opera offerta per suo conto dalla casa d’aste (basta che paghi puntualmente il prezzo di aggiudicazione e le commissioni di intermediazione), l’identità del venditore e la conoscenza dei precedenti proprietari dell’opera (chain of title) può essere di grande interesse sia per l’acquirente, sia per la comunità degli storici e ricercatori.
Infatti, sia per l’acquirente, sia per gli studiosi, l’identità di un proprietario precedente può rivelare informazioni fondamentali per ricostruire la provenienza di un’opera, verificarne l’autenticità o collocarla in un preciso contesto storico.
Questa contrapposizione genera un conflitto che la legge frequentemente risolve a vantaggio della tutela della riservatezza. Una soluzione che alcuni criticano, in particolare i ricercatori, poiché impedisce l’accesso a informazioni ritenute importanti per ricostruire la storia di un’opera o dell’artista che l’ha creata. D’altro canto, se il diritto alla riservatezza del venditore è rinunciabile da quest’ultimo, non è possibile divulgare i nomi di precedenti proprietari, magari deceduti, ammesso che si conoscano.
La questione è aperta: il conflitto tra riservatezza e interesse pubblico nel contesto delle aste è un tema complesso. Richiede equilibrio e soluzioni innovative per garantire sia la tutela della privacy che il progresso della ricerca.
Chi vende in asta? Riservatezza vs trasparenza (Giuseppe Calabi)
Il diritto alla riservatezza dei clienti delle case d’asta si scontra spesso con la necessità di trasparenza, soprattutto quando si tratta di opere d’arte che si sospetti possano essere state razziate durante la seconda guerra mondiale. Da un lato, la discrezione è un pilastro fondamentale per il mercato dell’arte. Molti collezionisti desiderano mantenere anonime le loro transazioni per motivi di sicurezza, prestigio o privacy personale. Le case d’asta tutelano rigorosamente queste esigenze, garantendo che i nomi degli acquirenti e dei venditori rimangano riservati.
Dall’altro lato, la questione dell’arte razziata dai nazisti pone interrogativi morali e legali. Milioni di opere furono confiscate o vendute sotto costrizione durante il regime nazista. Dopo la guerra, molte di queste opere finirono in collezioni private o pubbliche, rendendo complesso il processo di restituzione ai legittimi proprietari. In questo contesto, la riservatezza può ostacolare la ricerca della verità: senza sapere chi possiede un’opera, diventa difficile accertarne la provenienza e dunque la legittimità.
Negli ultimi decenni, sono stati compiuti progressi per bilanciare queste esigenze contrastanti. Molti paesi hanno adottato linee guida per la trasparenza nel mercato dell’arte, incoraggiando le case d’asta a condurre indagini approfondite sulla provenienza delle opere. Tuttavia, queste politiche incontrano spesso resistenze. Alcuni collezionisti temono che la divulgazione della provenienza possa esporli a rivendicazioni legali o a critiche pubbliche, mentre le case d’asta temono di perdere clienti.
Il dibattito resta aperto. Se il diritto alla riservatezza protegge gli interessi individuali, dall’altra, la giustizia storica richiede trasparenza per garantire che le opere d’arte tornino ai legittimi eredi. Una possibile soluzione potrebbe risiedere in un approccio collaborativo, in cui le case d’asta lavorano con esperti e istituzioni per verificare la provenienza delle opere senza compromettere completamente la privacy dei loro clienti. Solo così si potrà trovare un equilibrio tra riservatezza e giustizia.
L’importanza della due-diligence pre acquisto (Sharon Hecker)
La ricerca sulla provenienza svolge una funzione vitale di “checks and balances”. È bene che gli acquirenti di opere d’arte “conducano una due diligence” prima di effettuare ogni acquisto. Un aspetto importante è la necessità che un’opera d’arte abbia una provenienza linda prima di essere immessa sul mercato. Ma se i dati non si divulgano, diventa difficile verificarli.
Al di là dell’identificazione di un possibile trafugatore nazista, la ricerca sulla provenienza implica: individuare i nomi di proprietari passati “problematici” o preziosi per la conservazione del patrimonio culturale; individuare e talvolta restituire opere antiche prelevate illegalmente dai siti di scavo; identificare attraverso i nomi dei proprietari le opere d’arte coinvolte nel riciclaggio di denaro; correggere e smascherare provenienze errate, falsificate o “rettificate” che rivestono opere d’arte false con pedigree apparentemente rispettabili. In passato si riteneva che i falsi potessero essere individuati dall’occhio dell’esperto (connoisseurship). Ma oggi sappiamo che ciò non basta. Negli scandali che vanno da Knoedler a Beltracchi, gli esperti non sono riusciti a individuare i dipinti falsificati—e sono state le provenienze abilmente falsificate a far sì che queste opere venissero esposte e vendute. Un esempio italiano recente è stato un gruppo di opere presumibilmente di Alighiero Boetti con provenienze falsificate.
L’Art Newspaper riporta che i ricercatori di provenienze riconoscono l’importanza della protezione della privacy, ma sono sempre più frustrati per l’accesso negato o difficoltoso alle informazioni di cui hanno bisogno.
A mio parere, una soluzione potrebbe essere rappresentata dall’introduzione di un termine di prescrizione per la protezione della privacy. Dopo la scadenza, le preoccupazioni legali e di mercato in materia di riservatezza si esaurirebbero. Le informazioni dovrebbero essere affidate a un database neutrale di terze parti, non mediato né filtrato, che le renda accessibili per una verifica indipendente. Il mercato ne trarrebbe fiducia.