“I consulenti finanziari, quando ho iniziato a studiarli ventiquattro anni fa, quasi si vergognavano di dire quale fosse la loro mandante, perché il loro ego li portava a qualificarsi, in primo luogo, come professionisti: non è più così”. Lo ha dichiarato al Salone del Risparmio il fondatore e ceo di Finer Finance Explorer, Nicola Ronchetti, che ha presentato i risultati di una nuova ricerca sull’importanza dei brand per le reti di consulenza. Per la “clientela più patrimonializzata”, ha affermato, la scelta non avviene più esclusivamente sulla base solo della persona e della sua competenza, ma anche perché alle spalle ha una grande realtà.
Un’importanza, quella del brand, che sembra essere percepita non solo dagli investitori finali e dai neolaureati, ma anche dagli stessi consulenti, secondo quest’indagine che ha coinvolto complessivamente 3.000 soggetti, suddivisi fra queste tre categorie, cui si aggiunge quella dei bancari. A proposito di quest’ultimo gruppo, circa un terzo dei dipendenti di banca sarebbe pronto a considerare il passaggio alla professione di consulente, con un maggiore interesse manifestato dai bancari under 40, residenti nel Nord Italia e impiegati in una banca di grandi dimensioni.
Rete, quanto conta il brand
“Quanto è importante il brand della mandante? Fondamentale anche nell’attività di tutti giorni… perché le porte si aprono più facilmente”, ha dichiarato Ronchetti, sottolineando il potere di comunicazione che le grandi reti possono mettere in campo in termini di investimenti pubblicitari.
Essendo preceduti dalle campagne volte a far conoscere il brand, come consulente “non dovrò spiegare chi sono” al cliente, ha aggiunto Ronchetti, per il quale i risultati della ricerca indicano quanto sia fondamentale lo sforzo di comunicazione da parte delle reti. Secondo la ricerca Finer, il 69% dei consulenti ritiene, inoltre, che il brand della rete permetta di “attrarre più clienti” e il 59% di “attrarre nuovi professionisti”.
Come si entra in contatto con la banca rete
Nonostante l’importanza della comunicazione, solo una piccola minoranza degli investitori finali dichiara di aver conosciuto la sua banca-rete tramite anche tramite la pubblicità (12%): il canale più frequente (69%) è quello del passaparola fra parenti e amici seguito (59%) dalla conoscenza pregressa del consulente. Se la banca viene conosciuta principalmente in quanto istituto di famiglia (lo cita il 77% degli investitori), nel caso della rete questo fattore risulta meno importante (52%).
Nonostante la forte spinta delle reti sulla qualità del servizio “olistico”, gli investitori non sembrano dare un particolare valore a elementi quali la consulenza assicurativa, i servizi per le imprese e la possibilità di chiedere prestiti, citati, nel migliori dei casi, dal 10% degli intervistati. I tratti che i clienti reputano più distintivi della propria rete rispetto alla concorrenza sono, invece, il consulente dedicato (85%), il banking online (72%) e la consulenza finanziaria/patrimoniale (69%).
Passando alle caratteristiche che, in generale, i clienti ritengono più importanti per le reti spiccano la solidità della banca (88%), l’offerta di consulenza finanziaria e patrimoniale (85%) e il “consulente al centro della strategia (79%)”. A contare meno sono, invece, l’offerta di strumenti assicurativi di protezione (12%) e l’investimento nella formazione dei dipendenti (17%). Per attirare i neolaureati nella propria squadra, invece, cambiano un po’ le leve che le reti dovrebbero privilegiare: dopo la solidità, infatti, quello che conta di più per i giovani è il fatto che la rete sia “all’avanguardia nell’innovazione”.
A caccia di talenti: a cosa mirano gli aspiranti advisor
A proposito della caccia ai neolaureati, viene confermato che la professione di consulente finanziario non risulta particolarmente attrattiva: il 42% dei neolaureati non prende in considerazione l’idea di fare questo lavoro, contro un 32% favorevole. Come prevedibile, fra i neolaureati in economia questa percentuale sale al 45%, seguita da scienze politiche (38%), giurisprudenza (36%) e psicologia (33%).
Confermata la preferenza per la professione da parte dei maschi, che hanno oltre il doppio delle possibilità di prendere in considerazione l’ipotesi di diventare consulente rispetto alle donne (con un’apertura al 42% contro il 20%). Secondo Finer la preferenza espressa dal genere maschile si può spiegare con la maggiore propensione ai lavori di tipo imprenditoriale, caratterizzati da maggiore autonomia e rischio.
Per i neolaureati i primi due motivi che spingono a considerare il lavoro di advisor sono la passione per il settore finanziario (82%) seguito a stretto giro dalla prospettiva di buoni guadagni (79%). Nonostante l’importanza del rapporto umano nella professione, sottolineata in conferenza dal professor Enrico Maria Cervellati, solo il 29% dei nei laureati si dice attratto dal lavoro di consulente per la possibilità di contatto con i clienti.