In arrivo un bollino “verde” per i fondi sostenibili. Cosa cambia

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Bruxelles al lavoro su una certificazione “verde” per i prodotti finanziari. Secondo un recente studio dell’Esma, oggi solo lo 0,5% dei fondi art. 8 e 9 è allineato ai parametri contenuti nella bozza

La bozza della Commissione Ue prevede che i prodotti azionari abbiano il 50% di sottostante agganciato ai criteri della Tassonomia; per gli obbligazionari si parla del 70%

Mungo: “L’idea alla quale si sta ragionando è allentare un po’ queste soglie, in modo da catturare una più ampia gamma di fondi”

Anche i prodotti finanziari potrebbero presto ottenere un bollino verde. Si tratta dell’Ecolabel, l’etichetta di qualità ecologica targata Ue e dedicata a prodotti e servizi caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita che, nella bozza della Commissione, potrebbe presto estendersi a fondi alternativi e fondi alternativi riservati. “Un modo per contrastare, o quantomeno ridurre il più possibile, il rischio di greenwashing, ingannevole per i clienti oltre che foriero di rischi reputazionali e legali”, spiega Paola Mungo, direttrice scientifica del corso executive in finanza sostenibile e docente del master in finanza sostenibile di Altis (graduate school of sustainable management dell’Università Cattolica del Sacro Cuore) intervenuta in occasione della 13esima edizione del Salone del Risparmio. Ma quanti sono effettivamente i prodotti in grado di rispettare i requisiti necessari alla certificazione? Andiamo per gradi.

I criteri nella bozza della Commissione europea

“Il primo draft di criteri utilizzabili, risalente al 2021, aveva individuato due soglie: 50% per i fondi azionari e 70% per i fondi obbligazionari di investimenti in attività sostenibili individuati con gli stessi standard tecnici della Tassonomia europea”, racconta Mungo. Ma secondo un recente report dell’Esma su circa 3mila fondi art. 8 o art. 9 ai sensi della Sustainable finance disclosure regulation (o Sfdr, la normativa europea sull’informativa di sostenibilità nel settore dei servizi finanziari) oggi solo lo 0,5% soddisfa tali criteri; nello specifico, si tratta di 10 fondi art. 8 e 16 fondi art. 9. “L’idea alla quale si sta ragionando è allentare un po’ queste soglie, in modo da catturare una più ampia gamma di fondi”, aggiunge Mungo.

Ecolabel: i vantaggi per gli investitori retail

“L’utilità per gli investitori retail potrebbe essere notevole”, continua l’esperta. “Non dimentichiamoci che questo bollino è pensato proprio per i fondi comuni, per gli insurance-based investment product (come le polizze unit linked) e ora anche per i fondi alternativi e i fondi alternativi riservati. Così da distinguere in modo immediato un prodotto con un’identità ecologica reale, certificata da un ente terzo sulla base di dati scientifici, da un prodotto che non la possiede. Tra l’altro attraverso un marchio familiare per noi, già utilizzato per altri beni di consumo”, spiega Mungo.

Quanti fondi hanno già un bollino “green”

In Europa circa 1.300 miliardi di asset hanno ottenuto finora un bollino “green” volontario rilasciato da uno degli organismi di certificazione già esistenti, interviene Sara Lovisolo, head of Esg development di Amundi. “È il caso per esempio della Francia, dove il governo ha introdotto un’etichetta che certifica oggi circa 700 miliardi di asset under management. Ci sono organismi di natura privata che rilasciano questo tipo di etichette, ovvero consorzi che danno vita a comitati di certificazione che cercano di costruire un sistema il più possibile neutrale”, dichiara Lovisolo. Generalmente, viene richiesto a chi ottiene la certificazione di dimostrare di continuare a rispettare i requisiti nel tempo; inoltre, i bollini hanno una durata triennale e possono essere rinnovati.

Gli ostacoli per gli asset manager

Un asset manager, in questo contesto, si trova dunque a fare i conti con un mercato frammentato. “Ad oggi, infatti, un prodotto deve fare application in vari mercati per ottenere la certificazione”, avverte Lovisolo. “Certamente è un quadro all’interno del quale gli intermediari si devono un po’ districare”, conferma Mungo. “Però avere un’etichettatura semplice, maneggevole, anche graficamente, può essere un vero e proprio game changer”, rassicura. A patto che si intervenga anche sul piano della formazione. 

“Gli ultimi dati Ocse restituiscono la fotografia di un’Italia che non vanta ancora un livello sufficiente di educazione finanziaria. Sarebbe certamente auspicabile inserire un corso di finanza in tutti i percorsi universitari, quantomeno di base. Perché l’esigenza fondamentale è educare, formare le nuove generazioni, che non saranno poi nient’altro che gli investitori del futuro. Questo non sostituirà il ruolo dei consulenti finanziari, anzi. Consentirà loro di dialogare con i propri clienti e guidarli nel mare magnum delle opzioni d’investimento disponibili affinché gli stessi clienti possano fare scelte consapevoli”, spiega Mungo. Poi conclude: “Non possiamo pensare di raggiungere quest’obiettivo ragionando ognuno nel proprio orticello: serve sinergia tra mondo dell’industria, mondo accademico e mondo delle istituzioni. Solo con questo triangolo virtuoso potremo scalare numerose posizioni in classifica”.

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