In meccanica è un organo rotante che, una volta messo in movimento, nonostante una considerevole inerzia iniziale è capace di accumulare l’energia necessaria al suo moto per un lungo periodo di tempo. Nel business, ricorda come per un’azienda la combinazione di piccole vittorie porti a uno slancio tale da alimentare una crescita superiore agli sforzi riposti, così da decretarne un successo auto rinforzante. È l’effetto volano, un concetto applicabile anche al mondo degli investimenti: se ben allocate dalle aziende, le risorse economiche possono infatti innescare un circolo virtuoso nel lungo termine sia per le società stesse, che irrobustiscono il proprio vantaggio competitivo e valorizzano i rendimenti nel tempo, che per l’ambiente e l’umanità. Yolanda Courtines, CFA, Equity Portfolio Manager e Daniel Veazey, Stewardship Practice Leader di Wellington Management, spiegano come tale fenomeno possa ben applicarsi alla finanza attraverso la pratica della stewardship (responsabilità di impresa).
Partiamo dalle basi: teoria e pratica della stewardship
YC: “Principi di Investimento Responsabile (PRI) delle Nazioni Unite definiscono la stewardship come ‘l’uso dell’influenza di un investitore istituzionale per massimizzare il valore totale sul lungo periodo delle risorse economiche, sociali e ambientali, sul quale dipendono gli interessi dei clienti e degli altri attori coinvolti‘. In pratica, significa instaurare un dialogo attivo con i consigli di amministrazione, i membri indipendenti e con il management delle aziende, ma anche definire e misurare i progressi su temi di engagement (dialogo) ambientale, sociale e di governance (ESG) specifici per ciascuna società”.
Come essere dei buoni stewards?
YC: “Vi sono tre requisiti che determinano una buona pratica di stewardship. Il primo si sostanzia nel bilanciare le esigenze degli stakeholder coinvolti durante la ricerca del profitto, considerando le necessità delle persone, proteggendo il pianeta e investendo nella resilienza di rendimenti futuri attraverso l’innovazione. Il secondo requisito riguarda la capacità di identificare e mitigare i rischi ESG e investire in iniziative di sostenibilità per diminuire la volatilità degli utili, ridurre il costo del capitale e consolidare i rendimenti potenziali nel lungo periodo. Ultimo, ma non per importanza: una buona stewardship richiede investimenti nell’innovazione per adattare e far crescere il business nel tempo e rafforzare il proprio vantaggio competitivo, creando un ‘fossato’ che rende difficile per altre aziende entrare nel mercato o concorrere”.
Quali solo le inefficienze di mercato che la stewardship può colmare?
YC: “In primis, il fatto che si ponga troppa attenzione al breve termine. Secondo la Banca Mondiale, tra il 1979 e il 2020 gli investitori hanno liquidato le proprie posizioni dopo un tempo medio di soli 10 mesi. Grazie a un periodo di detenzione più lungo (idealmente superiore ai 10 anni), gli investimenti attenti al concetto di stewardship possono ottenere maggiori vantaggi in termine di rendimento. Vi è poi il fatto che spesso si dà poco peso alla stewardship: infatti, un lungo periodo di investimento può venire associato a una mancanza di flessibilità da parte del team di gestione. Tuttavia, un approccio di successo alla stewardship che si concentra su un prolungato orizzonte temporale è tutt’altro che statico, in quanto caratterizzato da un dialogo attivo con il management delle società al fine di promuovere e valutare gli effetti della sostenibilità. Un altro punto vede poi i rating ESG concentrarsi maggiormente sulla quantità che sulla qualità. Il mercato, infatti manca di efficienza nel valutare gli aspetti più qualitativi legati ai criteri ESG. La sostenibilità non è infatti facilmente raccogliere quantitativamente: i dati sono difficili da misurare, indicizzare e confrontare. Solo tramite il dialogo continuo con le aziende si possono ricavare le informazioni necessarie. Quarta inefficienza riguarda invece la credenza che il screen ESG e le esclusioni non generino alpha. Molte strategie hanno dei bias verso specifici stili di investimento; esclusioni e screening ESG, inoltre, non sono sufficienti a individuare le migliori società.
Il focus sulla responsabilità d’impresa, invece, permette di costruire un portafoglio bilanciato in termini di settore, rischi e aree geografiche e potrebbe aumentare il potenziale di generare alpha. Quinto punto riguarda il fatto che il dialogo con le aziende non sempre è consistente. Adattandosi alle diverse necessità dei tempi che cambiano, l’ESG è un concetto in continua evoluzione: per questo è importante impegnarsi costantemente e interagire con le aziende su diverse tematiche. È necessario far evolvere le agende delle società sui temi più rilevanti, ma è essenziale costruire con loro un rapporto di fiducia. Infine, sesta inefficienza è il fatto che l’etica e i giudizi sono sottoapprezzati. Spesso le società faticano ad accettare, oltre che a implementare, i consigli degli asset manager, anche se forniti condividendo le migliori pratiche e incoraggiando il cambiamento. Se l’allineamento alle richieste e il progresso nel tempo non dovessero sostanziarsi, il disinvestimento resta sempre possibile”.
Uno strumento per raggiungere questi obiettivi?
YC: “Il fondo Wellington Global Stewards Fund mira a generare rendimenti a lungo termine superiori all’indice MSCI All Country World investendo in azioni di società di tutto il mondo capaci di offrire elevati rendimenti sul capitale rispetto ai propri pari e il cui management mostra una stewardship esemplare per sostenere tali rendimenti nel tempo. Il fondo, classificato come Articolo 9 ai sensi della Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR) adotta un orizzonte di lungo periodo, idealmente superiore ai 10 anni; è altamente selettivo, in quanto investe in 35-45 titoli che soddisfano elevati standard proprietari di performance finanziaria e di stewardship; ha infine un approccio di engagement attivo, in quanto il team di investimento è coinvolto in prima persona nel dialogo con il management, spronando le società a fissare obiettivi di azzeramento delle emissioni nette di CO2 in linea con l’Accordo di Parigi e cercando di limitare il contributo al cambiamento climatico mirando
a un’impronta di CO2 inferiore di almeno il 50% a quella dell’indice di riferimento (MSCI ACWI)”.
Infine: quali sono stati i risultati conseguiti da Wellington Management nel 2021 in ambito di engagement e stewardship? Quali gli obiettivi per il 2022?
DV: “Durante lo scorso anno abbiamo per esempio focalizzato il dialogo con alcune aziende del settore energia su temi quali l’emergenza climatica e la trasparenza a livello di diversità, equità e inclusione (DEI). Con un’azienda di pagamenti digitali invece abbiamo discusso della remunerazione dei dirigenti. Internamente a Wellington, abbiamo esteso e ristrutturato il team dedicato alla stewardship e al voto per delega e siamo stati citati per due volte dal Financial Reporting Council come best-in-class
tra gli esempi di stewardship. Per il 2022 puntiamo a espandere le competenze e a continuare a spingere le aziende su questioni ESG che i nostri analisti ritengono possano influenzare in modo significativo la creazione di valore a lungo termine: il cambiamento climatico, la DEI, l’overboarding, il rinnovamento dei consigli di amministrazione e la governance”.
Scarica qui l’intera intervista a Wellington Management
Articolo tratto dal numero di settembre del magazine We Wealth