Le imprese che oggi si dichiarano convintamente sostenibili sembrano in numero persino maggiore; molti dei loro clienti finali – pur apprezzando la dichiarazione – esprimono dubbi. In media non più del 30% degli italiani giudica “affidabile” i principali settori con i quali facciamo quotidianamente affari. Il giudizio accomuna telco, automotive, aziende alimentari e società del web. Banche e assicurazioni risultano ben al di sotto di questa soglia – già bassa – del 30%.
Spesso i clienti finali si interrogano se le dichiarazioni di principio – per quanto ben argomentate – siano invece forme di green-washing. Un dubbio non infondato. Si pensi a quanto è successo a tanti giganti del mondo dei servizi, forti nelle loro dichiarazioni di sostenibilità, ma caduti su pratiche più o meno onorevoli e poco trasparenti.
La sostenibilità si nutre di trasparenza vera, anche sui prezzi. Così come si nutre (anche) di una forte capacità di mediazione fra interessi diversi: di “terze vie”. In qualsiasi mercato. Il Sole 24 Ore, in un articolo sulla “tenuta” della sostenibilità, pubblicato solo qualche mese fa, ci ricordava che: “Prima del disastro nel Golfo del Messico, che ne ha dimezzato la capitalizzazione di Borsa, BP era considerata leader di sostenibilità per le sue attenzioni all’energia pulita”.
Nel nostro mondo finanziario la sostenibilità prende spesso il nome di Esg, un acronimo che vuole ricordare le tre componenti principali di un investimento sostenibile: l’impatto sull’ambiente (environment), l’impatto sulla società (social), l’impatto sulle attività aziendali (la G della governance).
Il tema è caldissimo ed estremamente importante. Forse sarebbe opportuno evitare di farne l’ennesima moda finanziaria. Definire bene la promessa, il patto e lo scambio con l’investitore sembra una esigenza ancora da mettere a fuoco.
Da ricercatori sociali ci sembra interessante comprendere il punto di vista delle persone, degli investitori e dei destinatari finali di queste soluzioni, più che discettare sui criteri tecnici per la definizione di sostenibilità nell’investimento, un tema certamente importante ma che lasceremmo a tecnici ben più competenti di noi. Sembra un dato di fatto che fra le persone comuni e gli stessi investitori ci sia confusione sul concetto “tecnico” di sostenibilità (Esg e non solo) e ampia ignoranza sulle iniziative mondiali che hanno la sostenibilità come fine (ad esempio gli obiettivi dell’Agenda Onu 2030). Ma paradossalmente, quando le persone vengono invitate a ragionare su questi temi dal loro punto di vista, esse manifestano idee abbastanza chiare a proposito.
Una posizione – almeno come emerge dalle ricerche Eumetra – che potremmo velocemente riassumere in pochi e sbrigativi punti:
1. Il tema della sostenibilità è un patrimonio comune e sentito anche se confusamente. Non un giardinetto per anime belle. L’opinione pubblica pensa che di sostenibilità se ne debbano occupare tutti, ciascuno per la propria parte: il governo e le istituzioni pubbliche, ma anche centri di ricerca, università e imprese. Non è certo confinato nell’area storica del cosiddetto terzo settore. La sostenibilità è un tema centrale nella creazione di consenso, così come nella relazione di business. Non più una questione di “semplice” charity. La rottura del vecchio paradigma implicito in un approccio da economia neo-classica (il mondo pubblico e privato vadano per la loro strada, qualche Onlus – finanziata con i profitti creati – penserà poi ai danni causati) è totale.
2. Il gap fra le buone pratiche di sostenibilità attualmente percepite e quelle attese dall’opinione pubblica è enorme per tutti i segmenti (anche superiore a 30 punti percentuali la distanza fra quelli che riconoscono che “il settore se ne sta occupando” e quelli che dicono che “se ne dovrebbe occupare”).
3. Le priorità degli obiettivi di sostenibilità attribuite dagli italiani ai diversi settori di impresa sono basate sul buonsenso ma hanno una consistenza non banale: dal settore “farma” ci si aspetta soluzioni vicine alla salute e alla salubrità dei contesti, da quello “automotive” soluzioni di mobilità individuale sostenibili. È una ricetta magari non ottimale ma pratica, che arriva ai risultati collettivi attraverso tanti sforzi individuali (o appunto settoriali). Il coordinamento e la capacità di cooperare – anche fra concorrenti – diventa fondamentale. Non a caso il 17esimo obiettivo dell’Agenda Onu 2030 è quello del coordinamento, che sembra banale, ma non lo è. Lo sforzo organizzato e non individuale è centrale. Anche in uno stesso settore le strategie di coopetition (cooperazione sui punti chiave pur nella concorrenza di business) sono ampiamente consigliabili sulla gestione delle sostenibilità.
4. Agire onestamente con il fine della sostenibilità richiede coerenza fra dire e fare: i valori dichiarati devono essere agiti dall’impresa, anche tenendo conto del fatto che il terreno di verifica sarà la quotidiana relazione con il suo cliente. In questo senso, i vettori di sostenibilità non sono più “solo” etici (morali) in senso stretto. Siamo alla pragmatica della sostenibilità e alla valutazione della stessa sulle effettive “buone pratiche” riscontrate sul mercato.
5. Il suo corollario: esiste una simmetria ben maggiore di quella che ci si attende fra attese di sostenibilità e bisogni quotidiani delle persone. Oggi le persone si interessano alla sostenibilità perché hanno obiettivi di qualità della propria vita, in termini ambientali (a partire dal proprio territorio), sociali (a partire dalla propria comunità) e nello scambio personale con i sistemi di produzione (come consumatori o come lavoratori). È su questo piano che l’etica diventa pratica, non più quello – non disprezzabile ma un filo retrò – basato sul distacco e affiancamento di due piani diversi fra business e pratiche di sostenibilità. Basti pensare alle funzioni di “social responsibility” aziendale, spesso ancora sganciate dalla definizione delle strategie e pratiche commerciali dell’impresa.
6. Il Roi della sostenibilità è importante e concreto, quando reale e concreto risultano le pratiche di sostenibilità da parte dell’impresa. Una azienda sostenibile diventa un interlocutore privilegiato per il cittadino – consumatore, la sua distintività spicca, il brand acquisisce una identità e resilienza in grado di difendere eventuali livelli di moderata differenziazione a livello di prodotto e servizio.
Le conseguenze di tutto ciò sono molto profonde, talvolta “dolorose” e non facili da accettare. Non basta la charity per essere sostenibili, non basta una sana policy a protezione della “diversity” in azienda per essere sostenibili. Ci vuole una profonda coerenza fra iniziative di sovrastruttura e iniziative strutturali. La relazione trasparente con il proprio cliente, la proposizione di soluzioni oneste allo stesso, così come la capacità di fare un passo indietro, ammettere di aver sbagliato, porre rimedio, rassicurare, garantire continuità, abbassare la complessità. E tanto altro ancora. In questo senso la sostenibilità permea il brand. E rappresenta la nuova frontiera per la sua distintività e competitività.