L’idea del sandbox è fornire uno spazio virtuale in cui le startup possano sperimentare e innovare sotto il controllo dell’autorità di vigilanza
Grassi: “In Inghilterra le startup hanno sfruttato la sandbox come un bollino di qualità, ricevendo alla fine più fondi e crescendo molto più velocemente rispetto alle altre”
Dal 3 novembre entrerà nel vivo la seconda fase di sperimentazione fintech nel sandbox regolamentare, un ambiente protetto all’interno del quale le aziende interessate potranno “testare” progetti innovativi in ambito bancario, finanziario e assicurativo. Finora, stando ai numeri presentati da Laura Grassi (direttrice dell’Osservatorio fintech e insurtech del Politecnico di Milano) in occasione di una conferenza stampa alla Camera dei deputati moderata dall’onorevole Giulio Centemero della VI Commissione finanze, circa una decina di startup si sono fatte avanti, almeno in Italia. Eppure l’esperienza internazionale, in particolare quella inglese, dimostra come il sandbox possa essere anche un viatico per attrarre investitori in maniera più efficace.
Bisogna partire da un dato. La piazza finanziaria italiana sconta un problema di attrattività e competitività, interviene in apertura Giancarlo Giudici, professore ordinario di corporate finance del Politecnico di Milano. “Il rapporto capitalizzazione su pil, prima della crisi finanziaria del 2007-2009, era al 48%. A fine 2022 era al 33%. E l’Italia è uno dei pochi paesi in cui tale rapporto è calato. Sempre nel 2007, gli scambi medi giornalieri che avvenivano sul mercato azionario ammontavano a 6,2 miliardi di euro, nel 2022 a 2,2 miliardi, praticamente quasi un terzo”, ricorda Giudici. “È necessario fare ricerca, innanzitutto; da qui il sandbox, ovvero la possibilità di sperimentare – istituzioni e imprese – le possibili innovazioni per il futuro. Poi, c’è un tema di riforme; ma le riforme non bastano, bisogna anche supportare le imprese che desiderano investire. Terzo tema, il risparmio. Gran parte del risparmio passa ancora dai canali tradizionali, ma per supportare le piccole e medie imprese ci vogliono operatori specializzati, fondi di investimento e prodotti specifici che puntino proprio sulle pmi”, dichiara l’esperto.
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Focalizzandoci sul sandbox, secondo Grassi ci sono anche in questo caso una serie di aspetti da considerare (e migliorare) in Italia. “Siamo certi che le startup siano capaci di innovare sempre?”, si domanda. “Una startup può avere un’idea interessante, ma non è detto che abbia mercato e possa avere un futuro. Perché non pensare a un tutor, magari che arrivi dall’industria finanziaria, che si metta a disposizione per condividere la sua esperienza con le startup e farle crescere nella direzione giusta?”, suggerisce Grassi, rivolgendosi a una platea di rappresentanti di istituzioni e imprese. Un altro tema, continua, riguarda la misurazione. “È chiaro che tutte le idee portate avanti siano innovative, ma proprio perché sono innovative si fa fatica a misurarle. Quindi sì all’innovazione, ma serve anche concretezza”, dice l’esperta. Senza dimenticare che a livello internazionale sono diversi gli esempi di sandbox. “Perché una startup italiana o di italiani dovrebbe scegliere una sandbox italiana e non una inglese o americana, per esempio? Bisogna essere distintivi, partendo dalle nostre specifiche caratteristiche”, dichiara Grassi.
Il numero delle candidature presentate finora, nell’ordine di una decina come anticipato in apertura, secondo Grassi “è ottimo per essere una prima volta”. Ma non rappresenta quella che può essere la vera potenzialità dello strumento. “È chiaro che nelle banche ci sia una conoscenza più diffusa su dove stia andando la legge e quali siano le novità. Per le startup invece è diverso. Molte hanno timore che per partecipare gli serva un advisor che potrebbe portarsi dietro costi troppo elevati per una sperimentazione che non sanno se avrà realmente un impatto o se verranno incluse”, spiega l’esperta. Ma l’esperienza inglese insegna come i vantaggi possano essere rilevanti. “In Inghilterra molte startup hanno sfruttato il sandbox come un bollino di qualità: non sono certo che quest’attività la posso svolgere, ragiono con il regolatore, testo e poi potrò farlo in pianta stabile. I venture capital hanno seguito quest’idea. E molte realtà hanno ricevuto alla fine molti più fondi e sono cresciute più velocemente rispetto alle altre”, ricorda Grassi.
Il sandbox, in altre parole, si trasforma in un processo di validazione. “Essere passati da un sandbox attrae investitori in modo molto più efficace”, interviene Maurice Lisi, head of digital business di Bper Banca. “Non significa che una startup che non passa dal sandbox non accederà mai ai fondi di private equity e venture capital, ma passare dal sandbox comporta una validazione di carattere normativo sicuramente agevolante per chi investe”. E anche gli intermediari, in questo contesto, possono giocare la loro parte. “Possono annullare i costi di advisor sulle startup”, dichiara Francesco Martiniello, chief compliance & anti-financial crime officer di illimity. “Stando accanto a loro, credendo nello strumento, valutandolo e proponendolo alle autorità”.